La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini
Ponte Benne

Giovane artigiano ucciso da un giovanissimo barabba al Ponte delle Benne

Per apprezzare la location di questa storia dobbiamo ricordare che nella Torino del 1871 il fiume Dora è attraversato da due soli ponti, il Ponte Mosca (1830) e il Ponte detto delle Benne, in torinese il “Pont ëd le Bënne”, l’attuale Ponte di corso Regio Parco.

Le “benne” non sono i recipienti per il trasporto del vino, nella parlata torinese il termine “bënne” indica le capanne col tetto di paglia, capanne che si trovavano nel sito dove è stato costruito il ponte che risale al Cinquecento, quando è sorto il Regio Parco e quando il ponte era ornato - almeno nelle descrizioni! - di sculture decorative. Tra Settecento e Ottocento era un modesto ponte di legno; nel 1839 è stato costruito in muratura.

Dopo aver attraversato la Dora sul Ponte delle Benne, si percorre un ampio viale alberato rettilineo, la Strada al Regio Parco, che corre tra campi e prati dove sorge qualche rara cascina, e si raggiunge corso Novara dove si innalza il muraglione della cinta daziaria. Superata la Barriera del Regio Parco, si raggiunge il Cimitero, subito al di fuori della cinta, e poi la Manifattura Tabacchi.

Il Ponte delle Benne è in stretta connessione con il Cimitero perché in via Rossini non vi è ancora il ponte sulla Dora: così “attraversare il Ponte delle Benne”, nella parlata popolare del tempo, ha il significato poi assunto dall’espressione “andare in via Catania”, cioè morire.

Sulla sponda destra della Dora, di fronte al Ponte delle Benne, dove il viale di San Maurizio si unisce a quello di Santa Barbara (corso Regina Margherita) è stato aperto il Circolo o Rondò del Regio Parco, oggi Rondò Rivella, rondò corrispondente al Rondò di Valdocco, sinistramente noto come “Rondò dla Forca” perché fino al 1852 è stato il sito delle esecuzioni capitali.

Il viale di Santa Barbara-corso Regina Margherita termina qui al Circolo o Rondò del Regio Parco: il suo prolungamento rettilineo fino alla sponda sinistra del Po è stato progettato ma è ancora in corso di realizzazione.

L’abitato contiguo al Rondò del Regio Parco consiste di poche case, densamente popolate.

I giovani locali, quelli che la cronaca nera del tempo definisce come “barabba”, sono aggregati in una banda che è in forte rivalità con una analoga banda che raggruppa i giovani di Vanchiglia.

Il Borgo Vanchiglia, nel 1871, è assai meno esteso di quello odierno, alcuni isolati sono ancora in progetto, dal corso San Maurizio le costruzioni non superano la via Cesare Balbo e mancano nel tratto tra la via Montebello e il Rondò del Regio Parco.

I barabba del Ponte delle Benne, capitanti da un certo Domenico Michela, detto il Bòrgno perché cieco di un occhio, di sedici anni, ed i barabba di Vanchiglia, vengono frequentemente a sassate, e santificano le domeniche, divisi in due squadre, scontrandosi in una vera e propria battaglia, una sassaiola fatta in pubblico, senza preoccuparsi dell’incolumità dei passanti e delle persona che possono essere coinvolte dai loro lanci di sassi.

Così, domenica 26 marzo 1871, come al solito, le due squadre si schierano di fronte ed iniziano lo scontro scagliando sassi alla rinfusa. Uno di questi proiettili va a cadere vicino ad alcuni giocatori di bocce, fra cui si trovano Pietro Chiarottino, di ventuno anni, materassaio e suo nipote Giuseppe Chiarottino, di 18 anni, calderaio, “magnin” come si dice in lingua piemontese.

Ai due non garba di prendersi qualche sassata e rimproverano i forsennati barabba.

Mentre Pietro Chiarottino cerca di persuadere quelli di Vanchiglia a smettere il pericoloso gioco, suo nipote Giuseppe Chiarottino, con fare ardito e bellicoso, fronteggia i barabba del Ponte delle Benne.

Il caporione Domenico Michela gli tiene testa con altrettanta aggressività:

- «E così tu vorresti venirci a comandare? Se non volete essere colpiti, portate le vostre bocce altrove: noi siamo padroni di battagliare e di uccidere quelli di Vanchiglia».

- «Ed io son buono a farvi correre tutti via» ribatte ardito Giuseppe Chiarottino.

- «Tu sostieni quelli di Vanchiglia, lo sappiamo: avrai da fare con noi!», questa è la fatwa di Domenico Michela.

La faccenda a questo punto si sta già mettendo al peggio, ma intervengono alcune persone assennate che riescono a smorzare ogni lite.

Domenico Michela, però, continua a covare pensieri di vendetta e sogna di avere una buona occasione per metterla in atto.

Questa occasione, purtroppo, gli si presenta già nella successiva domenica, 2 aprile, quando verso le sette e mezza della sera, il suono di un organetto richiama molti ragazzi e ragazze a ballare sul rondò del Regio Parco.

Fra i ballerini accorsi vi sono anche Giuseppe Chiarottino e Domenico Michela.

Appena Michela vede Chiarottino, dice ad un certo Pules, che appartiene alla sua banda:

- «Guarda là ‘l Magnin: it veusto ch’i-j na faso un frach?» (Guarda là il Calderaio: vuoi che gli diamo una buona dose di botte?).

- «Fomijlo pura» (Diamogliela pure).

Ciò detto, gli saltano addosso e lo pestano con calci e pugni.

Alcune persone liberano Giuseppe Chiarottino dalle mani dei suoi persecutori, poi lo consigliano di andarsene subito a casa per evitare guai peggiori. Giuseppe è disposto a tornarsene velocemente a casa ma sente che Michela proclama di volerlo andare ad aspettare con tutta la sua squadra. Così Giuseppe, impaurito entra nell’osteria detta di Madlen-a, dove suo zio Pietro Chiarottino sta giocando a tarocchi con un certo Giuseppe Bracco. Giuseppe prega lo zio di volerlo accompagnare, questi acconsente alla preghiera del nipote ed esce con lui per accompagnarlo a casa.

Fatti pochi passi, incontrano Michela in contegno minaccioso. Giuseppe Chiarottino gli scaglia contro una pietra e allora Michela, dopo aver chiamato in aiuto i suoi accoliti Tòni, Pinòt, Cichin, Carlin e Subiet, apre un lungo coltello a serramanico e si mette a inseguire i due Chiarottino.

Questi comprendono che ogni resistenza sarebbe dannosa, perché sarebbero sopraffatti dal numero degli avversari, e si danno a precipitosa fuga.

Giuseppe Chiarottino si butta per i campi e per i prati e riesce così a sfuggire all’ira dei barabba del Ponte delle Benne.

Suo zio Pietro si mette a correre nella via del Mercato, lungo la sponda destra della Dora, in direzione del Ponte Mosca, oggi diremmo in Lungodora Savona. Quando inciampa in un sasso e cade a terra, Michela gli è subito sopra, lo ferisce mortalmente col coltello, poi dice ai compagni:

- «Scapoma, fieuj, ch’i l’hai foralo!» (Scappiamo, ragazzi, che l’ho bucato!).

Il povero Chiarottino si alza con una mano sul cuore: fa due o tre passi barcollando, poi esclama: «Òh, pòver mi i son mòrt!» (Oh, povero me, sono morto!) e cade a terra senza dire altre parole.

Un certo Salamone sente questa esclamazione e corre, invano, in aiuto di Chiarottino. Non c’è più speranza di salvarlo: cinque minuti dopo l’infelice non respira più ed ha cessato di vivere.

Viene invano trasportato all’Ospedale Mauriziano (oggi la Galleria Umberto I, che collega via della Basilica con piazza della Repubblica).

L’autopsia accerta che Pietro Chiarottino ha ricevuto due coltellate, una all’addome ed una, mortale, allo sterno tra la quinta e la sesta costa di sinistra.

All’indomani, mentre la “Gazzetta Piemontese” registra questa uccisione come uno dei frequenti alterchi tragicamente finiti a coltellate che funestano le domeniche torinesi, Domenico Michela viene arrestato.

Domenico Michela è nato a San Giorgio Canavese il 30 gennaio 1855 e lavora come muratore. È accusato dell’omicidio volontario di Pietro Chiarottino.

Viene processato alla Corte d’Assise di Torino, presieduta dal cavalier Nasi, nel novembre del 1872. Il Pubblico Ministero è il barone Bichi, lo difende l’avvocato Della Porta.

Per la sua età, minore degli anni diciotto, Michela è condannato soltanto alla pena della reclusione per sette anni.

Difficile trovare un adeguato commento a questa brutta storia di criminalità giovanile nella Torino del 1871: ci limitiamo a riportare quanto scrive il cronista giudiziario Curzio nella sua “Rivista dei Tribunali” della “Gazzetta Piemontese” del 16 novembre 1872: «Altro omicidio. E questo ha per causa il malvezzo che hanno i nostri così detti barabba di fare in pubblico la sassaiola tra loro».

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Articolo pubblicato il 16/09/2013