La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

La guerra dei cognati

Questa è una storia che appartiene alla serie criminale evergreen dei “Parenti serpenti”: una vertenza fra due cognati che abbiamo intitolato “La guerra dei cognati”, in ricordo di un triste momento storico del Piemonte (1639-1642).

 

Protagonisti della storia sono Felice Ariano, di 65 anni, e suo cognato Nicola Giustetti. I due hanno tenuto in società una panetteria posta sull’angolo di via della Zecca (via Verdi) con la via Vanchiglia. Quando Felice Ariano si è stancato di fare il pane, ha ceduto al cognato la sua parte del negozio, con la condizione che questi lo mantenesse e lo alloggiasse insieme ai suoi due giovani figli, Giovanni ed Emilio.

 

Col passare del tempo, i due cognati hanno stipulato fra loro un’altra convenzione, con cui Felice Ariano restringeva i suoi diritti. Ma questa convenzione non era chiara, perciò è nata fra i due cognati una causa accanita portata al Tribunale di Commercio.

 

Mentre la causa pendeva al Tribunale di Commercio, perché questo si prendeva un sacco di tempo per esaminare la causa e prendere una decisione, i due contendenti ingannavano l’attesa litigando fra loro: si insultavano e si malmenavano. Così, periodicamente, uno dei due sporgeva querela alla Pretura urbana e, periodicamente, uno dei due veniva condannato dal Pretore.

 

Finalmente, nel dicembre 1873, il Tribunale di Commercio emana una sentenza che ingiunge a Felice Ariano e alla sua famiglia di sgombrare e di allontanarsi con tutte le loro masserizie dall’alloggio di Nicola Giustetti il 6 del mese di gennaio. Il giorno fatidico arriva, Ariano non si dispone alla partenza e Giustetti gli dice, minaccioso, che lo farà cacciare dalla forza pubblica.

 

Indispettito da queste minacce, Felice Ariano va a comperare una rivoltella da un armaiolo di via dell’Ospedale (via Giolitti), e insegna al figlio Emilio come si fa a sparare, dicendogli di tirare a Giustetti.

 

Per capire le motivazioni di questo «cattivo ammaestramento del padre al figlio», bisogna dire che Felice Ariano conosce una disposizione della legislazione penale italiana del tempo, per cui i delinquenti sono esenti dalla pena oppure sono puniti più o meno severamente a seconda che siano di età maggiore o minore degli anni 14, 18, 21. I delinquenti minori degli anni 14, se hanno agito con discernimento, sono puniti con la pena della semplice custodia, anche se hanno commesso dei crimini, e se hanno agito senza discernimento, non vanno soggetti ad alcuna pena.

 

Felice Ariano ha quindi progettato di far uccidere l’odiato cognato Giustetti da suo figlio Emilio, minore di 14 anni, nella speranza di vendicarsi senza doversi assumere responsabilità, mentre suo figlio sarebbe stato assolto.

 

Emilio aderisce prontamente allo sciagurato progetto del padre e impara a maneggiare l’arma. Quando il padre è convinto che il figlio sia abbastanza esperto, dice: - «Ora andiamo pure». Per andarsene dall’alloggio di Giustetti, gli Ariano devono transitare per la panetteria. Aspettano quindi che la loro vittima designata si trovi al banco di vendita. Per primo passa il padre, poi passa il figlio Giovanni, infine passa Emilio, armato di rivoltella. Quando è vicino allo zio, gli spara ma, per fortuna, il colpo manca il bersaglio e il proiettile va a conficcarsi nel muro per la profondità di due dita.

 

Giustetti, rimasto illeso, dice a Emilio: - «Ah biricchino, tentasti di uccidermi! Non hai potuto… ora io uccido te», e così dicendo si mette a inseguirlo.

Emilio corre a raggiungere il padre, il quale esclama: - «L’astu nen massalo? Gira, gira; tirie, tirie».

Emilio si volta e spara un secondo colpo contro lo zio, senza colpirlo.

Al rumore dei due spari ed alle grida di Giustetti accorrono molte persone, fra cui la guardia municipale Francesco Segarelli, che disarma il ragazzo, lo arresta e lo porta in questura. Qui Emilio viene interrogato e dice subito che voleva uccidere Giustetti, per ordine del padre.

 

Anche Felice Ariano viene arrestato, ma nega in modo assoluto di aver istigato il figlio a commettere un delitto così grave. I testimoni però lo hanno sentito quando diceva al figlio «Tirie, tirie; gira, gira», così lo smentiscono e provano la sua complicità. Padre e figlio Ariano sono incriminati di assassinio mancato ma la Sezione di Accusa, tenendo presente che Emilio è minore di 14 anni e che suo padre è stato dichiarato dai medici «debole di cervello», li manda a giudicare dal Tribunale correzionale.

 

Al Tribunale correzionale, il padre persiste a negare mentre il figlio Emilio, per salvarlo, smentisce le sue prime dichiarazioni e sostiene di aver progettato l’assassinio dello zio spontaneamente e senza istigazione: nelle sue risposte si dimostra molto sveglio e intelligente, confermando quindi di aver agito «con discernimento».

L’avvocato Teja, sostituto Procuratore del Re, con una eloquente arringa dimostra la colpevolezza di entrambi gli accusati e chiede che siano condannati alla pena della custodia.

Malgrado la bella difesa dell’avvocato Pasquali, i due sono condannati a questa pena, il padre per sei anni e il figlio per due anni.


«Tutti i giorni se ne impara unauna malizia dei malfattori», così il cronista giudiziario Curzio, nella Rivista dei Tribunali della «Gazzetta Piemontese» del 20 giugno 1874, commenta questa sciagurata vicenda. Come addetto ai lavori, Curzio è colpito dal tentativo del padre indegno Felice Ariano di piegare la legge ai suoi ossessivi disegni di vendetta. Anche a costo di portare sulla cattiva strada il giovane figlio, come la nostra moderna sensibilità ci porta a sottolineare.

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Articolo pubblicato il 24/04/2014