La Buona Scuola nel pensiero e negli scritti di don Luigi Sturzo

La scuola come spazio di democrazia autenticamente vissuta

 

«La scuola gli interessava più di ogni altro ramo dell’amministrazione» aveva scritto nel 1957 don Luigi Sturzo. «La scuola come spazio di democrazia autenticamente vissuta (nell’amministrazione, nei programmi, nelle nomine e nella funzione degli insegnanti)» scrive l’autore, professor Umberto Chiaramonte, nella premessa del libro dal titolo “Necessaria in democrazia”.

Sturzo si è trovato a vivere da protagonista quasi tutte le questioni nodali della storia della istituzione scolastica a tal punto che il libro risulta essere la storia della scuola italiana dalla fine dell’Ottocento e nel contempo la storia del sacerdote, nato il 26 novembre 1871 e della democrazia culturale e quindi sociale e politica, che è efficace solo se c’è l’educazione basata sulla conoscenza della vera verità.

La scuola che risponde al desiderio di proporre una visione dell’uomo e della società, non per imporre delle soluzioni ma per confrontare le nostre aspirazioni e le nostre scelte a quelle di altri, concretizzando certi principi e valori, senza creare contrapposizione tra laici e cattolici. Una scuola e una educazione per essere competitivi in una società aperta al bene comune. Per essere sempre presenti da cittadini liberi, desiderosi di esserlo, come soggetti responsabili e artefici, nella creazione di una società migliore nella promozione della persona.

In opposizione a una convinzione che vede lo stato, e non solo ma anche qualsiasi altra entità precostituita scontata, come unico soggetto che deve indicare tutti gli obiettivi da raggiungere, avendone tutti i mezzi per raggiungerli, eliminando a ognuno la libertà di scelta, la responsabilità e il rischio personale, indispensabili per far crescere la persona umana e quindi la società. E in opposizione alla conseguente costruzione di un ordine istituzionale secondo una idea di bassa politica intesa come arte per dominare il prossimo.

Una scuola maestra di vita in cui «il nostro punto di partenza e come mira pratica è il nostro fine. Fra il punto di partenza e il fine vi è uno spazio da attraversare, ed è lo spazio storico dato da Dio agli uomini per i loro esperimenti, i quali saranno sempre un miscuglio di buono e di cattivo, di verità e di errori, di successi e fallimenti» (L. Sturzo, Politica e Morale. Coscienza e politica. In Opera Omnia, serie I, vol. IV, p. 326).

Questo è per don Luigi Sturzo ancor più, lo spirito della democrazia che coincide con la nostra vita. Motivo per cui questo principio è sacrosanto e intoccabile. «Il bambino acquista prima la nozione dell’altro da sé – madre, nutrice, infermiera, il compagno o la compagna di gioco – che la nozione di se stesso». (L. Sturzo, I problemi dell’educazione negli Stati Uniti e l’educazione umana, in Opera Omnia, III serie, vol. V).

Inoltre: «La democrazia non si improvvisa; alla democrazia occorre educarsi; gli inconvenienti che si incontrano nelle continue esperienze democratiche, si superano con la buona volontà, studio e perseveranza. La critica è perciò utile e deve essere fatta all’aperto». (L. Sturzo, Politica di questi anni. Consensi e critiche. In Opera Omnia, serie II, vol. XII, p. 386).

E Luigi Sturzo comincia subito a percepire quest’aria viziata e ammorbante nella scuola, già da studente diciannovenne, quando ci si pose il problema sulla validità del titolo di studio delle scuole private e dei seminari in particolare. Anche se Sturzo fu sempre obbediente all’autorità ecclesiastica, la sua posizione fu contraria a quella del vescovo Gerbino, al quale inviò una lunga lettera. Lui criticava la decisione del vescovo di fare effettuare gli esami ai seminaristi presso il liceo statale. Questo perché sostanzialmente snaturava lo spirito del seminario, in quanto la preoccupazione di dare ai seminaristi un diploma statale dava seguito alla tesi che bisognasse non sottrarsi al giudizio degli insegnanti statali, mentre Sturzo riteneva «che i sacerdoti avrebbero potuto fare a meno dei diplomi ufficiali rilasciati dallo stato, per contare, invece, sulla capacità di fare una scuola che facesse concorrenza alla scuola pubblica con la serietà degli studi e con insegnanti preparati».

Inoltre era contrario anche perché questa preoccupazione di sottoporsi al giudizio dello stato, portava i chierici a non studiare di più, ma a sperare nella buona sorte (vista la tendenza dei professori statali «a schiacciar l’opera delle scuole private») mentre temevano di più la valutazione dei propri insegnanti.

Non meno importante risultava per lui la conseguenza che snaturava il seminario, la cui essenza era legata alla vocazione sacerdotale: l’acquisizione del diploma statale portava alcuni in seminario non per vocazione ma per comodità. Ma anche quando divenne docente nel seminario continuò nel suo atteggiamento di «critica utile fatta all’aperto», impegnandosi con schemi, appunti, sunti, commenti, con un metodo concreto e pragmatico e non da presuntuoso nonostante insegnasse letteratura, storia, etica, diritto ed economia politica, sociologia, filosofia e psicologia.

Tuttavia il suo impegno venne frustrato dal conservatorismo e venne considerato anomalo per cui nel 1902 venne esonerato dal rettore del seminario. Ebbe comunque riconosciuto il suo atteggiamento di apertura al mondo nuovo dallo stesso vescovo mons. Gerbino da lui osteggiato in precedenza, che lo incaricò di un’azione sociale nella città per diffondere il messaggio di una Chiesa aperta, così come appariva nella Rerum Novarum di Leone XIII (1891), che colpì profondamente il giovane Sturzo.

L’azione educativa di Sturzo è possibile rilevarla più dai suoi scritti, dalle sue azioni e dai frutti che raccolse impegnandosi su più fronti, come l’autore Umberto Chiaramonte con una minuziosa e opulenta ricostruzione storica mette in evidenza nel libro dopo una estenuante ma proficua azione di ricerca storica.

Sturzo raccoglie e dissemina per la sua strada fatta di tanti incarichi e impegni sociali e religiosi, sempre più gravosi e diversificati, tutti ampiamente citati nel libro, altrettanti frutti, senza fermarsi davanti alle sconfitte temporanee, con piglio battagliero. «Studiamo per formarci una cultura che ci renderà capaci a potere portare la nostra parola in mezzo alle assemblee e farla apprezzare dai nostri avversari. Studiamo per potere istruire il popolo e renderlo capace di resistere agli avversari. Istruitevi per formare la parola e la penna di cui difetta il nostro campo. Educate l’animo a virtù, al carattere, alle lotte. La nostra è missione di dolori, noi dobbiamo portare una croce». (pag. 48).

Ciò anche per dar vita a un uomo nuovo, prima ancora che a un uomo di fede cattolica. Un uomo che con una maggiore conoscenza ed educazione diventasse più umano e di conseguenza la società. Ma «questo principio si è voluto presentare come una novità mentre è la legge storica e perenne della Chiesa che non invecchia, ma che trasforma le potenzialità naturali della società in mezzi o coefficienti di vita soprannaturale» (pag. 45).

E così accadde che per esempio (ma vi sono tante altre primazie riguardanti Sturzo riportate nel libro e non qui per brevità, e senza togliere il gusto della sorpresa al lettore) grazie a lui per la prima volta nelle aule del Seminario di Caltagirone si parlava di economia sociale, non teorica, ma fondata su verifiche delle trasformazioni in atto della società contadina del posto.

Ma i «coefficienti di vita soprannaturale» citati sopra, non devono indurre minimamente a pensare che Sturzo fosse un bel teorico alimentato da illusioni. Nel mondo del lavoro sostenne le unioni professionali, scrisse sui contratti agrari e le cooperative agricole e lamentava mancanza di educazione intesa come formazione professionale. Nella contrattazione salariale, oltre ai mali e alle ingiustizie che rilevava Sturzo inseriva la mancanza di istruzione tecnica, sicché evidenziava la necessità di dare impulso alle scuole tecniche serali e festive proprio per quelli che erano inseriti nel mondo del lavoro.

Si batté nel comune di Caltagirone come prosindaco per istituire un istituto tecnico e per la scuola professionale di ceramica, arte che ancora oggi è legata al nome del comune. Per il miglioramento della classe operaia inoltre, secondo lui, l’Unione Professionale (pag. 55) e non lo stato, avrebbe dovuto promuovere la creazione di asili, di istituti di arte e mestieri, di università popolari e organizzare conferenze e circoli sociali per una cosciente e retta visione dei diritti degli operai.

 L’educazione era per Sturzo non solo lo strumento di elevazione morale e culturale ma anche il prerequisito per lo sviluppo di iniziative professionali e produttive che avrebbero modernizzato la Sicilia e tutto il paese, non solo il nord.

Si adoperò anche per l’istruzione e la formazione delle fanciulle con un progetto ambito che andava oltre l’alfabetizzazione o i lavori domestici e proponeva la lingua straniera, la pedagogia e la storia dell’arte.

E’ educazione per lui anche mettere in continua discussione la figura tradizionale del sacerdote e quindi la sua. Un prete che doveva essere colto, dunque, visto che la conoscenza è alla base della formazione della persona, in un difficile rapporto tra clero e laicato, dove «i sacerdoti erano in una condizione di inferiorità in quanto facilmente ricattabili per le loro necessità materiali e di carriera».

Come tale e come insegnante di seminario dava all’educazione una definizione così completa che sarebbe difficile trovarne di più esaustive nella letteratura pedagogica contemporanea. Tutto ritiene elemento educativo, i libri, le gare giovanili, le gite, le visite alle cooperative e ai luoghi di lavoro. Un’attenzione particolare manifestò per quelle discipline non previste dalla normativa vigente, che sono la musica, il canto, la pedagogia, lo studio della lingua straniera e l’attività teatrale (realizzò delle opere teatrali, il dramma La Mafia), per una continua educazione verso il meglio, perché ognuno abbia una forte estrinsecazione di sé.

L’approccio di Sturzo al problema educativo in definitiva, può essere assunto da qualsiasi insegnante, cattolico o laico che sia, perché risulta di una «grande apertura antropologica» e anticipatore di modernità. Nel libro è presente il tema della laicità anche in modo specifico nel paragrafo «Laicità dello Stato e laicità della scuola» e «La controffensiva dei cattolici sulla laicità e la posizione di Sturzo» dove viene affrontato dall’autore più approfonditamente questo aspetto a partire dal diciassettesimo/diciottesimo secolo, periodo in cui cominciò a sentirsi l’esigenza di dibattere su questo tema.

A riguardo, al di là delle idee espresse da Sturzo riportate dall’autore si ritiene di dover far osservare come il suo pensiero e la sua azione fossero stati ritenuti realmente laici dalla «storiografia con parere unanime, riportando i giudizi di due storici laici e non credenti, Salvemini e Spadolini». (pag. 125).

Si può affermare in conclusione che Sturzo fu un educatore nel senso più ampio del termine e in modo continuo fino alla morte. L’ultimo suo scritto sull’educazione risale a quattro mesi prima del suo decesso: “L’Istruzione e l’industria”. «Si tratta del testamento morale sul concetto di libertà che egli assegnava alla scuola italiana di ogni ordine e grado per stimolare le forze politiche e il mondo imprenditoriale a farsi carico della qualità dell’insegnamento.

Agli imprenditori, rivolse infine un ammonimento (ma noi quanto mai oggi approfittando della sua autorevolezza lo faremmo nostro rivolgendolo a tutti, e in primis ai soggetti facenti parte gli organi della scuola essendo quanto mai attuale e prezioso), che dimostra il suo attaccamento particolare al bene dell’istituzione scolastica e a quanto ci tenesse a questa. Ricordò che «l’effettiva efficienza vale più di un diploma ottenuto pietatis causa e di scolette di avviamento che non avviano nessuno».

 

 

 

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Articolo pubblicato il 09/05/2015