L’onestà paga… soprattutto lo Stato

Storia di ordinario affanno causa tasse di una società in attivo. Riflessioni di Andrea Biscàro

L’amico Andrea Biscàro mi ha inviato queste sue condivisibili riflessioni che sottopongo molto volentieri ai Lettori di “Civico20News” (m.j.).

 

Questa storia è legata a filo doppio alla massima di Svetonio (nato 1945 anni fa, e già questo dovrebbe indurre ad amara riflessione): «Il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle».


È una storia che parla di eccellenza alimentare, voglia di fare e di emergere, con fantasia ed onestà. Gli attori di questo paradosso tutto italico sono due cugine piemontesi (Claudia e Monica) che nel 2013 hanno coronato il loro sogno: aprire un ristorante. La storia ce la racconta Claudia. È un narrare circostanziato, con tanto di cifre che non annoieranno il lettore, specie se piccolo imprenditore


«Dopo anni di lavori a tempo determinato, nella mia mente si concretizza l’idea di ‘buttarmi’, assieme a mia cugina, in un lavoro in proprio. Abbiamo analizzato il mercato e raggruppato idee ed esperienze comuni. Sostenute dall’Associazione Commercianti di zona, ci siamo fatte un’idea delle ottemperanze in materia contabile, sanitaria, obblighi e doveri di un buon commerciante. La voglia di iniziare è tanta, anche se le tasche sono vuote. Cerchiamo un locale da acquistare. Ne troviamo uno spoglio, in disuso da qualche anno. Per arredarlo servono 40 mila € per il bar e la cucina. Ai 40 mila si aggiungono 60 mila € così spalmati: licenza nuova dal Comune, 0 €; tassa comunale (più che discutibile) detta “dei parcheggi”, 22 mila €; “Segnalazione Certificata di Inizio Attività” per l’ASL, impianto elettrico e di riscaldamento, marche da bollo, insegna, diritti SIAE, canone RAI. In totale, 100.000 € ed il locale sarà nostro. In tasca ne abbiamo solo 10 mila, ma crediamo nello Stato, quello che viene incontro ai giovani imprenditori, specie se donne sotto i 35 anni d’età. Grazie all’Associazione Commercianti veniamo a conoscenza di leggi regionali che sostengono il credito alle imprese, elargendo prestiti. Il problema più grande sono le garanzie. L’attività sarebbe stata nostra e nostra doveva essere l’esposizione ed il rischio: così fa un imprenditore. Nessuna casa a garanzia o firme di terzi, ma solo i nostri 10 mila €. Dopo notti insonni troviamo la soluzione: consorzio di garanzia (consorzio che “presta le garanzie” per progetti imprenditoriali) e legge regionale a cui bastava la garanzia del consorzio. Quel che segue è l’attesa per gli “ok” di enti vari e banche. Finalmente, a maggio del 2013, ottenute le risposte positive alle nostre richieste, iniziamo i lavori e gli acquisti, arrivando ad aprire il 5 luglio dello stesso anno. Il credito a noi accordato consisteva in 60 mila € suddivisi in 30 mila da una finanziaria della Regione Piemonte e 30 mila dalla banca; aggiungiamo a ciò uno “sconfinamento di conto corrente” di 30 mila €.


Con oculatezza riusciamo a far rientrare le nostre spese nei 90 mila accordatici. La forma di restituzione è prevista in 10 rate di circa 7 mila € ogni 6 mesi a partire da giugno 2013. E per i 30 mila di “sconfino”, beh, lavorando si incassa e quindi si è in grado di restituirli, sino ad arrivare a credito ed iniziando così a lavorare coi nostri soldi.


Ed ecco che nasce il bar-tavola calda, aperto dal lunedì al sabato, dalle 4 alle 19. Nessun dipendente. Due donne sole, fiere di farcela! Approvvigionamenti pagati alla consegna e niente stipendio per noi: il denaro che entrava nel locale doveva essere utilizzato per le rate del prestito, l’affitto dei muri ed i fornitori.


Decidiamo, sulla base delle richieste della clientela, di chiudere il servizio bar ed implementare quello ristorazione, 7 giorni su 7, pranzo e cena. Cucina casalinga, rispettando la tradizione, con qualche innovazione. Piace. La strada è quella giusta. In breve gli incassi ed il fatturato aumentano esponenzialmente. Le rate del prestito vengono pagate tranquillamente dal conto, la soddisfazione è enorme. A luglio 2014, in sede di bilancio, chiudiamo con un piccolo utile, siamo ancora a credito di IVA e non ci accorgiamo quindi del minimo esborso della società.


Riusciamo a prenderci un mini-stipendio: 200 € al mese. L’impegno è grande: dalle 8:00 a mezzanotte, con un paio d’ore di pausa nel pomeriggio. Ma la voglia e l’entusiasmo sono alle stelle! Alla fine del 2014, oltre a pagare regolarmente fornitori, INPS e rate, riusciamo anche a risalire dal conto corrente: una sensazione bellissima, così come le prenotazioni dei clienti. Il venerdì ed il sabato sera non si riesce a servirli tutti. Il cliente si abitua a prenotare. Non ci possiamo ancora permettere di assumere un dipendente fisso, ma ci stiamo pensando perché il lavoro va bene e in due è pesante. Si arriva all’inizio di luglio 2015. Abbiamo già restituito 5 rate: siamo a metà del finanziamento e da alcuni mesi non usiamo più lo “sconfino di conto” e siamo in attivo di 15 mila €. Aumentiamo il nostro ‘stipendio’: 400 € a testa. Non usiamo più il fido e riusciamo a pagare tutti. La società sta andando bene, malgrado la crisi. I clienti sono soddisfatti, i menù sfiziosi, nel locale si percepisce il tocco femminile.


E arriviamo al bilancio redatto a luglio del 2015 relativo all’anno 2014. Scopriamo di avere un terzo socio: lo Stato. Credito IVA esaurito e 40 mila € di utile su cui pagare le tasse, che inizialmente non pensavamo nemmeno di rateizzare, tanto i soldi sul conto ci sono…


Analizziamo il ‘salasso’. Le tasse della ditta sono effettivamente basse: 1.600 € suddivisi in 4 rate da pagare il 20/08, 16/09, 16/10, 16/11. A queste si aggiunge l’acconto delle tasse (personali e societarie) relative al 2015, corrispondenti a circa 7.000 € (pagamento il 16/11). Veniamo alle tasse personali: 4 rate per un totale di 5.000 € a socio, da pagare il 20/08, 31/08, 30/09, 31/10. Si aggiunge l’INPS (il 16 di febbraio, maggio, agosto, novembre) che corrisponde a circa 3.600 € annuali a socio. Ti domandi a cosa serva pagare così tanto di INPS a fronte di una pensione che, se mai arriverà, sarà magra. Senza contare l’esorbitante tassa sui rifiuti, l’IVA da versare trimestralmente, l’affitto del locale, i costi fissi delle utenze e la VI rata del finanziamento (31/12). Una mazzata, da agosto alla fine dell’anno, quantificabile in almeno 44.000 mila €, tra l’altro con un periodo (seconda metà di luglio e buona parte di agosto) in cui si lavora a ritmo sensibilmente ridotto non essendo una località turistica. L’esborso è pesantissimo per una piccola società come la nostra! Non ci consente di crescere, soltanto di galleggiare, lavorando per pagare. È qualcosa di irrazionale. Se ne rende conto lo Stato? Forse sì, ma pensa solo all’immediato, a racimolare soldi per le sue traballanti finanze.


Diciamo quindi addio al nostro mensile di 400 € e alla possibilità di assumere un aiuto, cioè di creare lavoro. Non possiamo farlo, non per crisi, ma per una scelta: o do lavoro o pago le tasse. Follia pura!


Da adesso in poi ogni cliente che entrerà nel nostro locale contribuirà, con i 10 € del suo pranzo (la sera il menù è alla carta, ma il grosso passa per il pranzo) al pagamento di una piccola, ma significativa parte, dei nostri versamenti erariali. E il prossimo anno sarà la stessa cosa, inseguendo gli acconti che verranno, certi che qualcosa aumenterà. Una minima inflessione di mercato ci potrebbe portare a non riuscire a pagare il nostro terzo socio non lavorante: lo Stato».


Che altro aggiungere alle parole di Claudia?


Nulla. Si commentano da sole e molti piccoli imprenditori si riconosceranno in esse.


Non intendiamo parlare di crisi perché il loro ristorante non è in crisi. Lavora, incassa.


L’assurdità di questa storia non sta nella crisi del mercato che si riflette sul ristorante bensì nella crisi che lo Stato – col suo sistema fiscale strangolatorio, nazionale e regionale – induce in un’attività in crescita. Immaginiamo l’effetto dell’identica pressione fiscale nei confronti di un’attività in crisi…


A Claudia e Monica – e a tante imprenditrici ed imprenditori come loro, non abituati a frignare, ma che provano un sano sconcerto per l’ottusità di questo Stato – interessa una cosa sola: che la politica si renda conto, ascoltando realmente la base, che un simile sistema fiscale – inclusa l’opinabile, statuale discrezionalità degli studi di settore – non consente al Paese e alle sue varie anime di decollare. È fonte di disorientamento arrivare a pensare che non di rado la pressione fiscale nei confronti dei medio-piccoli imprenditori stimoli il “nero”, non per truffare lo Stato, quanto per sopravvivere ad esso. Sono logiche che gli onesti – la maggioranza – respingono. Claudia e Monica appartengono al popolo degli onesti. Vorrebbero soltanto vivere in un Paese normale e non malato di miopia come il nostro.

Andrea Biscàro

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Articolo pubblicato il 18/07/2015