Giovanni Falcone: l’uomo che non aveva paura.

A 24 anni dalla strage di Capaci l’Italia ricorda gli eroi che hanno guidato la lotta alla mafia. Federica Allasia per “Civico20”

Originariamente i Greci utilizzavano la parola eroe per indicare una persona potente, di nobile stirpe, capace in quanto tale di elevarsi al di sopra di ogni comune individuo. La figura dell’eroe era assimilabile a quella di un essere semi-divino, destinato per natura ad eccellere in vita attraverso il compimento di imprese leggendarie e ad ottenere la gloria eterna dopo la morte.

Giovanni Falcone non voleva diventare un eroe: non era la ricerca della fama a guidare le sue azioni, ma un’urgente esigenza di giustizia. Era prima di tutto un cittadino, un uomo innamorato della propria terra a tal punto da non riuscire a distogliere lo sguardo da ciò che la stava distruggendo: la mafia. Decise così di combattere l’indifferenza e si fece servitore dello Stato, votando la sua vita alla legalità e alla lotta alla criminalità organizzata.

Falcone era risoluto e testardo, ma fu un’altra dote a renderlo inviso ai mafiosi: il coraggio.

Le minacce, gli avvertimenti, la consapevolezza dei rischi che il lavoro svolto avrebbe inevitabilmente comportato per la sua incolumità e quella dei suoi cari, non bastarono a fermarlo e forse non sarebbe potuto essere altrimenti.

La sua, infatti, è stata una lotta al servizio della collettività, un impegno per il futuro svincolato dalle contingenze del momento e dai timori dell’uomo comune.

Falcone non combatteva per se stesso, ma per una nazione intera; intendeva lasciare in eredità ai bambini che vedeva correre per le strade della sua Sicilia, una terra più sicura e meno corrotta, lui che a causa della pericolosità del suo incarico aveva deciso di rinunciare alla paternità per non “mettere al mondo degli orfani”.

Fu uno dei primi a comprendere la reale portata del fenomeno criminale e a considerarlo un sistema parallelo e interno allo Stato, una realtà da conoscere, portare allo scoperto ed infine distruggere.

Non fu il soggiorno presso il carcere dell’Asinara imposto a lui e Borsellino per motivi di sicurezza ad interrompere la sua attività, né le oltre 300 condanne inflitte ai mafiosi con la sentenza conclusiva del maxiprocesso di Palermo riuscirono a saziare la fame di giustizia che animava il pool antimafia di cui faceva parte. Non arrestò la sua battaglia quando nel settembre del 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura rifiutò la sua candidatura e scelse come successore di Caponnetto Antonino Meli, ponendolo a capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo e determinando di fatto una rottura dell’azione investigativa intrapresa dal pool, o quando Domenico Sica fu nominato Alto Commissario Antimafia al suo posto.

Non si fece intimorire dall’attentato dell’Addaura del 1989, né dalla vicenda del “Corvo” di Palermo: Falcone sapeva di non poter contare su un concreto sostegno istituzionale ed era ben consapevole della presenza di infiltrazioni mafiose all’interno dello Stato e dei servizi segreti. Sapeva che presto o tardi i tentativi di eliminarlo sarebbero riusciti, ma non per questo pose fine alla sua lotta.

Furono 1000 kg di tritolo a fermarlo. Erano le 17:58 del 23 maggio 1992, quando al chilometro 5 della A29, nei pressi dello svincolo di Capaci- Isola delle Femmine, Giovanni Brusca, uno dei più importanti membri di Cosa Nostra e attuale collaboratore di giustizia, premette il dito sul telecomando e fece deflagrare l’esplosivo posizionato in un canale di scolo al di sotto dell’autostrada su cui sfrecciavano le Fiat Croma di Falcone e degli agenti incaricati di scortarlo. Nella strage, oltre al giudice antimafia, persero la vita sua moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato, e tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Una strage annunciata a cui fece seguito il 19 luglio dello stesso anno l’assassinio di Paolo Borsellino, collega ed amico di Falcone, e di cinque dei suoi agenti.

Giovanni e Paolo non smisero mai di lottare, nemmeno quando compresero che il sistema che volevano combattere era profondamente radicato in quelle stesse istituzioni che avrebbero dovuto proteggerli, preservando la purezza dei loro intenti. Furono lasciati soli davanti ad un mostro troppo grande da sconfiggere; come gli eroi greci, anch’essi perirono, ma solo fisicamente.

Le loro idee e quelle di quanti, allo stesso modo, trovarono la morte nella guerra contro la criminalità organizzata, risuonano ancora forti nelle menti di coloro che hanno deciso di raccogliere la loro eredità e che tutti gli anni, il 23 maggio, si riuniscono per ricordare la morte di un grande uomo e celebrare la Giornata della legalità, quasi come se fosse necessaria una ricorrenza per risvegliare le coscienze dei più e riaffermare un principio essenziale all’interno di qualsiasi Stato di diritto.

Falcone considerava la mafia un fatto umano caratterizzato da un inizio e inevitabilmente da una fine e rimetteva alle istituzioni il compito di estirparla dalla società. Ogni cittadino, però,  ha il dovere civico e morale di proseguire la sua battaglia e quella di quanti si sono opposti e tutt’ora si oppongono al dilagare di una cultura criminale, perché se è vero che “gli uomini passano, ma le idee restano”, allora ognuno di noi, facendole proprie, “può essere eroe, anche solo per un giorno”.

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Articolo pubblicato il 23/05/2016