La prima neve di settembre sull'arco alpino. Quando si portavano le mucche a valle

Ricordando bestie, luoghi e formaggi; amarcord di una economia montanara assorbita dai tempi

Lunedì 20 settembre, Sulle belle montagne del Piemonte è calata la prima neve, bianco saluto all'estate che và. È un fenomeno leggiadro e delicato che mi riporta alla memoria momenti di vita da altri tempi.

Nei primi anni 60, torinese non ancora adolescente, iniziai a trascorrere le vacanze in un modesto paese di montagna. Stavo lì con mia madre, il babbo veniva al sabato partendo da Torino con la sua Vespa.

Erano tempi in cui la villeggiatura durava tre mesi, perché si ritornava a scuola ad ottobre. Un periodo durante il quale ci si trasferiva presso una grangia in Valle di Susa, e lì fraternizzavo con la gente del posto. Gente montanara, discreta e accogliente che, oltre ad affittare qualche camera di quel casale in pietra e legno, viveva dei prodotti della montagna, dalla carne tenera di uno sfortunato vitello e per lo più, dei derivati dalle generose mammelle degli armenti: latte fresco, burro e formaggi da leccarsi i baffi.

Avevano una dozzina di vacche che chiamavano per nome, qualche capra  e un cane nero di nome Baldo, dolcissimo e ubbidiente pastore peloso, un guardiano che da solo controllava la piccola mandria lasciata libera di brucare, quando d'estate veniva trasferita ai pascoli d'erba sopraffina e fiori profumati, fino ai 2000 m. In quel periodo le bestie pascolavano liberamente in alta quota pur senza andare lontano e se il tempo cambiava, Baldo e un giovane che rimanevano di guardia nel silenzioso, splendido scenario degli alti pascoli, andavano a radunarle, guidandole in quelle basse costruzioni che, non a caso, si chiamano alpeggi. Ogni tanto, quand'era tempo di sole e di funghi, li si andava a trovare.

Quando a settembre si annunciavano le prime nevicate, unendomi ai ragazzi della famiglia di montanari, mi incamminavo per un ripido sentiero che costeggiava un tumultuoso torrente che, con il suo melodioso, zampillante canto, ci accompagnava nell'andare a recuperare gli animali, ed era una gran festa.

Ogni volta che mi vedeva spuntare di lontano, il cane nero mi correva incontro, spontaneo e radioso nel dare il benvenuto al giovane forestiero, l'unico che lo faceva giocare un po', perché altrimenti era una bestia da lavoro pagata con molti ordini, poche carezze e un po' di pane secco dentro a una ciotola di latte. Di quella bestia ne conservo un indelebile, gentile ricordo.

Rendendo omaggio al termine, poiché c'era anche un mulo che portava a valle i preziosi prodotti ricavati dal latte delle capre e delle mucche, si scendeva lungo una stretta mulattiera. Si scendeva piano, facendo attenzione, guidando le vacche per il ripido pendio, mentre le capre saltellavano; se la spassavano un sacco.

Si scendeva in un concerto di campane appese al collo degli animali, ognuna con un suono diverso, ciondolante carta d'identità. Si scendeva perché la gente del posto sapeva che l'estate in alta quota avrebbe lasciato presto il posto alle prime nevicate. Quelle spruzzate bianche che sto osservando adesso.

In quel ridente tempo di giovane età, quelle genti di montagna mi insegnarono a mungere le mucche e tutti i trucchi per ricavare burro e formaggi. Prodotti di lavoro e tradizioni centenarie. Prodotti di piccole famiglie autonome dei quali mi nutrivo quotidianamente; non mi fecero mai del male. Prodotti dei quali rammento ancora la consistenza e il sapore, ma che oggi, le severe direttive delle Aziende Sanitarie Locali ne impedirebbero la primitiva lavorazione, ahimè.

Ricordi di settembre che il sole e il vento di questa bella giornata mi riportano alla mente intersecandoli con altri pensieri.

Cosa rimane oggi di tutto questo? Cosa ne sanno i nostri figli tecnologici di quell'arte sopraffina superata dai tempi? Chi raccoglierà l'eredità di tener puliti i monti da cui i torrenti precipitano a valle? E nel frattempo, pensavo ai nuovi cibi americani, alle farine geneticamente modificate, alle belle confezioni colorate di biscotti con sopra tutto scritto, certificato, alla pubblicità che garantisce "privi di olio di palma", alle sfilze di bistecche e latticini senza storia né sapore allineati sugli scaffali dei supermercati.

Qualche giorno fa sono tornato in quei posti. I boschi sono abbandonati, irriconoscibili, nessuna bestia in alta quota, nessun odore di fieno e di stallatico dalle nuove costruzioni; brutte villette al posto dei prati e… "quella casa in mezzo al verde, dove sarà?"

L’ho trovata, superstite inglobata in una orrenda urbanizzazione vacanziera. Niente più stalla, niente più cane, niente più capre né mucche, ma solo qualche stanza in più per i turisti mordi e fuggi.

Dall'alto della strada, fin dove sono riuscito a salire, si vedeva la pianura: un'invasione di urbanizzazione e capannoni industriali, e in fondo, immensa, Torino. Un'enorme chiazza di atmosfera giallastra e palazzi, con quel paio di anacronistiche torri a spezzarne il profilo: grattacieli, simboli del nuovo potere concentrato, monumenti parallelepipedo, uno di qua l'altro di là, ancor più assurdi guardandoli dalla valle.

Era tutto più armonico e pulito, più… piccolo e lontano, più agreste e naturale solo cinquant'anni fa. Alla mia felicità sembrava non mancare nulla.

E mentre si ritornava verso il capoluogo mescolati al frettoloso e puzzolente fluire del traffico, alla tanta gente che viene e che va, meditavo sul significato delle parole: progresso, sviluppo, civiltà, identità. E un non so cosa, da qualche ancestrale parte nascosta della mia coscienza scuoteva la testa con disillusa, triste contrarietà.

È scesa la prima neve di settembre, molto è cambiato ma qualcosa resiste sugli alti pascoli alpini. Lassù ci sono ancora bestie e aziende agricole ben organizzate che rendono vive le nostre montagne. I prodotti adesso sono protetti, certificati, e non per questo meno genuini, ma la globalità è in agguato! Non lasciamo che il patrimonio agroalimentare alpino si disperda, che si pieghi alle severe leggi dell'Europa unita, di una Bruxelles che sa far molto di conto e poco sa di alpeggi, di cani pastori, del suono di campane quando le bestie scendono a valle.

...Ma questa è un'altra storia… e io, come sempre, sono solo un romantico, incartapecorito e superato testimone di un tempo che fu, incapace di adeguarsi alle meraviglie di questa nostra nuova, antibiotica, lottomatica, macrobiotica, cibernetica, telefonica era...


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Articolo pubblicato il 22/09/2016