Riforma costituzionale. Il Federalismo, questo sconosciuto

Perché non si ritorna al pensiero di Gianfranco Miglio?

Ci stiamo avvicinando alla fatidica scadenza del referendum costituzionale, peraltro non ancora fissata dal Governo.

In questi mesi abbiamo assistito al teatrino delle banalità rivestite da anatemi sproloquiati da fonti contrapposte. Inizia Renzi che dapprima lancia minacce ultimative pronosticando il suo ritorno a casa, in caso di disfatta.

Dal fronte opposto, nella maggior parte dei casi si è consolidata l’ostentazione  molto semplicistica di un No secco al quesito referendario, avente come obiettivo la cacciata di Renzi, quasi si trattasse di una partita a ping pong e ovviamente senza sviscerare, con argomentazioni politiche e giuridiche le ricadute della riforma e le motivazioni di ugual contenuto da includere ed evidenziare nel martellante NO.

Non è mancata l’esecrazione,  lanciata da parte soprattutto di frammenti populisti di Centro destra e del M5S contro i tiepidi che si stanno convincendo di accettare una mini riforma in cambio di niente.

Non è comparso, da parte degli esponenti politici nessun tentativo di analisi su quale contenuto e portata avrebbe dovuto basarsi la riforma dello Stato auspicabile per un Paese  che non è mai stato unitario e tanto meno Nazione, nonostante la retorica vomitata dai governati di turno dal 1861 in poi.

L’aspetto più avvilente consiste nelle mancanza di motivazioni convincenti da parte degli eredi virtuali dei paladini del Federalismo degli anni ‘90 che non hanno compreso come la direzione di marcia avrebbe dovuto essere alternativa, perché con il Si o il NO, non si sarebbe risolto nulla. Le criticità di uno Stato obsoleto sarebbero rimase in piedi, come purtroppo rimarranno.

Questo, a prescindere se passerà al vaglio degli elettori, la riformicchia proposta dal Governo in carica  partorita da una classe politica retrograda e rinunciataria.

Il tutto dimenticando che l’Italia può vantare eminenti studiosi di dottrina della Stato che, in tempi non sospetti ci hanno invitato a riflettere sull’architettura ottimale di Stato, necessario qui, per costruire “il vestito sulla gobba del gobbo”.

Non dimentico la chiarezza delle lezioni del mio antico Maestro, quell’Alessandro Passerin d’Entrèves che oltre ad essere uno studioso e cattedratico a livello internazionale di Filosofia della Politica, elaborò, tra le altre opere una lucidissima” Dottrina dello Stato”, condivisa ed apprezzata in tutto il mondo.

Federico Chabod e Alessandro Passerin D’Entrèves sono stati coautori della Dichiarazione di Chivasso e ispiratori dello Statuto della Regione Autonoma della Valle d’Aosta, nonché fautori del Federalismo Europeo di stampo Einaudiano e del regionalismo, pur difendendo l’italianità della loro terra d’origine.

Per riferirmi all’esempio cronologicamente più recente,  vorrei tornare agli studi scritti e divulgati da Gianfranco Miglio, uno dei massimi scienziati della politica del nostro Paese.  Gli studi di Miglio rappresentano l’essenza e l’origine delle idee di Stato e Federalismo.

Purtroppo la vicenda umana dello studioso Miglio, prestato alla politica e non compreso da coloro che avrebbero dovuto erigerlo a simbolo  ed emblema di un impegno politico d’avanguardia, ha avuto i disastrosi esiti che tutti conosciamo ed ancor oggi ne stiamo pagando il prezzo.

Prima di riportare un significativo frammento di un suo libro che ci spiega l’imprescindibile esigenza oltre che opportunità dello Stato Federale, vorrei divulgare una notizia degna di nota ed attenzione.

Lo scorso fine settimana si è conclusa la tradizionale manifestazione della Lega Nord sul prato di Pontida, carico di simboli e ricordi.

Anche lì il vulcanico segretario Matteo Salvini (l’altro Matteo) ha lanciato anatemi contro il Referendum ribadendo che, in futuro non si sarebbe alleato  con personaggi e partiti che si siano manifestati  titubanti sul No o convintissimi sul Si. Per poi dare seguito a proclamare il suo disegno politico a stampo nazionale e con l’attenzione rivolta alla politica non certo autonomista che forse potrà trionfare oltr’alpe.

In quel contesto, si sono ritrovati uniti un nucleo di quei protagonisti che sedevano in Parlamento con Gianfranco Miglio e intenderebbero, a dispetto dei tempi, seguirne le orme con rinnovato impegno e vigore. Ma l’aspetto maggiormente rilevante è che costoro sono oggi affiancati da giovani liberi che nonostante i miti imperanti, intendono riscoprire e ritornare ai valori delle origini, innalzando il drapeau dell’Autonomia e del Federalismo.

Questo microcosmo potrà gemmare, nel rappresentare la volontà di tornare ad affrontare e sostenere nell’arengo politico, i valori fondanti del federalismo  e prendere le distanze dalle meschinità delle polemiche spicciole di politicanti che ci hanno condotto tutti insieme all’attuale degrado?

Il contagio verso coloro che, in partiti e movimenti politici s’ispirano ai valori autentici della libertà ed all’affermazione dell’imprescindibile rispetto del ruolo della Persona e delle identità nella società è ampiamente auspicabile, contro il qualunquismo e le aberrazioni  del pensiero debole.

Spes ultima dea!

Mi taccio per lasciare la parola all’illustre studioso che con ragionamenti semplici, ma efficaci, c’indica una via possibile da seguire.

“Gli italiani alle prese con l'ultima occasione per cambiare il loro destino”

 "Fin dagli anni dell’opposizione clandestina alla dittatura, mi ero convinto che l’Italia non era, e ormai non poteva più diventare, uno Stato nazionale come la Francia (...). Giudicavo la convivenza possibile soltanto nel quadro di un assetto “federale” o “confederale”, cioè di un ordinamento che riconoscesse le particolarità etniche, storiche, sociali, culturali, economiche e le consuetudini anche giuridiche, delle diverse stirpi, consentendo di mettere in comune soltanto ciò che per tutti fosse utile - o addirittura necessario - gestire in forma unitaria.

Io credo che, nello scorcio del XX secolo in cui stiamo vivendo, sia arrivata a conclusione un’intera fase della storia dello Stato moderno: si è esaurito il tempo (quattro secoli buoni) in cui questo organismo ha dominato tutte le forme associative minori, con la staticità, l’immobilità quasi sacrale della sua imponente presenza e l’unitarietà delle sue istituzioni. Punto di riferimento, fermo e incrollabile, per ogni azione volta a negare e distruggere qualsiasi disprezzato “particolarismo”, esso ha tenuto a battesimo una grandissima civiltà: la civiltà appunto “moderna”.

Ma oggi - proprio, e in primo luogo, per le sue grandi dimensioni, e per la sua vocazione all’unità - lo Stato non è più in grado di soddisfare, rendendole prima uniformi, le sempre più diversificate esigenze dei cittadini: esigenze che, sospinte dall’incoercibile capacità inventiva delle nuove tecniche produttive, si moltiplicano e si specificano senza posa, a tutti i livelli, sfuggendo a ogni pretesa, appunto, di uniformità, e possono venire fronteggiate soltanto da strutture politico-amministrative incomparabilmente più articolate e diversificate di quelle tradizionali.

Ciò che sta andando in crisi è la nozione dell’unità dei grandi aggregati politici.

In secondo luogo - e ancora più in profondità - tende ormai ad essere contestata la staticità, l’immutabilità della struttura “Stato”. Ciò che qui va in crisi è l’idea che i cittadini debbano essere “inquadrati” una volta per tutte in un determinato (e soprattutto uniforme) contesto istituzionale: che essi non possano variare, nel tempo, l’assetto derivante dalla loro collocazione sul territorio, e scegliere (con le debite garanzie) come e con chi associarsi, rendendo relativi i confini politico - amministrativi e mutando, a seconda delle esigenze, i loro rapporti di dipendenza dalle aggregazioni “superiori”.

In un tale contesto, la vocazione del nostro tempo per il Federalismo (...) si rivela come tendenza verso un modello di gran lunga più generale, contraddistinto dalla relatività dei vincoli politici (e quindi delle unità amministrative) sia per la quantità delle competenze, sia per la durata nel tempo. “Contratti” a termine regolano (e variano) la dimensione delle convivenze istituzionali - non solo territoriali ma anche categoriali e il loro inserimento nelle strutture più ampie, egualmente volontarie, pattizie e temporanee: dalla microcomunità e dal piccolo sindacato, alla multinazionale.

Ho già scritto altrove che bisognerà partire da un ormai improrogabile rimaneggiamento dell’attuale ordinamento regionale, nel senso che le Regioni dovranno essere restituite alla loro fondamentale funzione normativa, e a quella organizzativa dei sottostanti enti locali. Nel rivedere (e aggiornare) l’elenco dei settori di competenza, prescritto dall’articolo 117 della Costituzione (che è ormai superato ed è diventato irrazionale) bisognerà stabilire con chiarezza che le Regioni non sono soltanto autorizzate, ma addirittura tenute a cercare e a favorire accordi tra loro: seguendo e assecondando il naturale intreccio interregionale dei bisogni e degli interessi.

Una ricerca condotta anni fa dal compianto professore Innocenzo Gasparini (e purtroppo mai pubblicata) ha dimostrato che le relazioni economiche fra le Regioni padane, fra quelle dell’Italia centrale e quelle dell’Italia meridionale configurano l’esistenza di almeno tre potenziali “macroregioni”. Sono probabilmente proprio queste aggregazioni i futuri soggetti della struttura federale, che potrebbe nascere, pertanto, spontaneamente, senza traumi ideologici e psicodrammi, soltanto assecondandosi il comportamento dei cittadini.

Il crisma di un assetto costituzionale formale dovrebbe consacrare, ad un certo punto, questo nuovo modo di essere dell’unità degli Italiani: aggiungendo, alle tre grandi unità particolari di cui ho parlato, le isole, le altre Regioni a statuto speciale, e un “territorio federale” intorno a Roma (anche per risolvere il problema difficile della “città capitale” e del suo statuto).

Io credo che all’autorità federale o confederale (l’alternativa concerne il grado di coesione che si vorrà dare alla struttura unitaria) dovrebbero in ogni caso spettare: gli affari esteri generali, la difesa esterna (e in parte anche quella interna: cioè una polizia federale accanto a quella macroregionale), la finanza generale, la giustizia (esclusi i giudici di pace), l’istruzione superiore (universitaria) nonché il coordinamento della ricerca scientifica (la scuola - elementare, media e professionale - dovrebbe essere di competenza macroregionale).

L’aggettivo “generale”, che unisco ad alcune materie, significa che alle macroregioni dovrebbe essere riconosciuta, per esempio, una certa autonomia nella gestione delle relazioni con i Paesi (Regioni) confinanti: un’idea di politica estera “minore” che mi sembra abbia già trovato accoglienza favorevole. Alle macroregioni toccherebbero altresì il prelievo e l’utilizzazione delle risorse finanziarie (sempre però con budget federale e una finanza sottoposta alle leggi federali).

Analogamente, dove parlo di “coordinamento”, alludo al diritto-dovere delle autorità federali a promuovere (attraverso la normazione, da parte del Parlamento) l’armonizzazione delle competenze, delle iniziative e delle attività macroregionali. La questione della ripartizione delle competenze è tuttavia materia fluida ed opinabile: le opzioni sono molte e tutte da discutere. Del resto, a questo proposito, credo che ci saranno presto nuovi modelli, a livello europeo, da studiare e da utilizzare".

Tratto dal libro “L’asino di Buridano” di Gianfranco Miglio

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Articolo pubblicato il 23/09/2016