Il giullare perduto

La morte di Dario Fo lascia un vuoto, quello del teatro alternativo e controcorrente

Dopo la morte del Nobel per la Letteratura Dario Fo, sono andato a rivedermi alcuni pezzi di quel suo picolo capolavoro che fu "Mistero Buffo", fatto di brevi piece teatrali nelle quali l'artista lombardo promosse la divulgazione del teatro giullaresco raccontato in gramelot, quel misto di lombardo, piemontese e veneto attraverso cui riuscì con eccellente abilità a farsi capire e a raccontare la Storia in maniera diversa.

Proprio nel prologo a uno dei suoi pezzi più celebri, quello su Bonifacio VIII, Dario Fo ricordò come "da sempre è il popolo che fa la storia ma poi sono i padroni che la raccontano", e proprio in quell'occasione narrò la storia di alcuni celebri personaggi come Fra Dolcino o Jacopone da Todi che si batterono per la libertà, attraverso una povertà e una condivisione che oltraggiava i Papi del tempo, finendo poi con il dire che spesso queste personalità vennero rimpicciolite a semplici eretici con una connotazione sin troppo esemplificativa e fuorviante come demoni.

In effetti Dario Fo ebbe il grande merito di raccontare la Storia da un altro punto di vista, il punto di vista della povera gente, dei contadini, degli anarchici, dei reietti, in una maniera assolutamente ironica, alle volte grottesca, ma sempre onesta e non dalla parte dei padroni, che non sono da intendersi quelli delle fabbriche, ma i padroni della Storia, quelli che la Storia non l'hanno sempre fatta, ma a danno degli altri l'hanno voluta raccontare, forzare e trasmettere a modo loro.

Come ha giustamente avuto modo di dire il neosindaco di Milano, Sala, Dario Fo molto probabilmente non ha ricevuto quanto ha dato (e continuerà a non ricever visto che Maroni, governatore della Lombardia, ha detto "ho sentito che Sala vuole dedicargli mezza Milano, noi in Regione non gli intitoleremo alcuna sala").

Ciò nonostante, rimarrà un personaggio unico nel suo genere, come lo sono stati Gaber, Umberto Eco, Jannacci, Gassman, uomini che nel loro ambito hanno dato qualcosa di nuovo, di innovativo.

C'era un tempo in cui la TV italiana dedicava spazio a quei programmi culturali, magari un po' di nicchia, ma che consentivano un approfondimento, un allargamento della nostra conoscenza dal teatro alla musica; poi negli anni '80 è arrivata la TV commerciale, facilona, allegra, spensierata, a tratti volgarotta, la TV degli urlatori, dei reality, dei TG con le soft news, e qualcosa si è perso.

Solo l'arrivo della TV digitale, e quindi con l'allargamento dell'offerta di canali, sembra aver portato, per lo meno con la TV publica, a divulgare nuovamente un certo tipo di programmazione (ad esempio con Rai5).

Più di uno ha lamentato la superficialità con cui si sono dati certi Nobel, come quello appunto a Dario Fo e recentemente a Bob Dylan, ma c'è da domandarsi se una società ormai brava a dare premi, rinoscimenti, soldi a palate, gettoni di presenza a giocatori di calcio e fenomeni da baraccone mediatico di qualche reality, che spesso non è la quantità a fare la qualità e che uno come Fo, i cui spettacoli e libri forse hanno avuto meno appassionati di qualche meteora VIP che riempie i palinsesti televisivi, ha meritato quel premio per l'innovazione, la dedizione e la forza di andare controcorrente, mostrando anche l'altra faccia della Storia, quella che non fa comodo raccontare, per chi come noi è abituato a quell'atteggiamento americano che ha visto un proliferare di film in cui i cow boy erano i buoni e i pellerossa i cattivi, perché d'altronde "da sempre è il popolo che fa la storia ma poi sono i padroni che la raccontano"




Marco Pinzuti





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Articolo pubblicato il 22/10/2016