Figure dell’Italia civile

Il professor Pier Franco Quaglieni ci anticipa i tratti salienti del suo libro che sarà presentato giovedì 19 gennaio nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Torino in Verdi 8

Con i caratteri della Golem Edizioni, è uscito nei giorni scorsi un saggio di Pier Franco Quaglieni, dal titolo ”Figure dell’Italia Civile” che in quest’epoca di livellamento culturale privo di valori e di stimoli al miglioramento, suona particolarmente gradito a coloro che ancora non si rassegnano al degrado.

In dialogo con l’autore, il libro sarà presentano giovedì 19 gennaio alle ore 17,30 nella prestigiosa ed aulica Aula Magna del Rettorato dell’Università di Torino, in via Verdi,8. Parteciperanno all’incontro, coordinati dal Professor Giuseppe Piccoli, Dino Cofrancesco, Sara Lagi e Francesco Tuccari.

Il libro dello storico torinese e direttore generale del Centro “Pannunzio”, tratteggia le figure di personalità importanti della cultura e della politica italiana del Novecento, da Einaudi a Giovanni Amendola, da Marchesi a Soleri, da Calamandrei a Chabod, da Burzio ad Adriano Olivetti, da Ernesto Rossi a Balbo di Vinadio.

La parte più consistente del libro riguarda gli “amici e maestri” che l’autore ha conosciuto e frequentato: Jemolo, Bobbio, Galante Garrone, Montanelli, Valiani, Venturi, Casalegno, Alda Croce, Primo Levi, Ciampi, Luraghi, Romeo, Spadolini, Pininfarina, Ronchey, Tortora, Pannella. Due capitoli molto densi concludono il libro, quelli dedicati a Soldati ed a Pannunzio.

Si tratta di scritti che Quaglieni arricchisce ricostruendo la storia dei rapporti tra il Centro “Pannunzio” e le diverse personalità che animano il libro. Le figure delineate sono spesso ricordate con episodi del tutto inediti e poco convenzionali, in alcuni casi persino politicamente “poco corretti”, ma sempre equilibrati sotto il profilo storico. Ne viene fuori un ritratto a tutto tondo dell’Italia civile, che l’autore ritiene vada riscoperta e valorizzata come patrimonio culturale irrinunciabile anche per il futuro delle nuove generazioni.

Abbiamo rivolto qualche domanda all’autore.

Professor Quaglieni, qual è il senso complessivo del suo libro ?

Voglio ricordare e far ricordare uomini e donne che hanno dato un grande apporto morale, intellettuale  e civile all’Italia. Nel vuoto della società liquida in cui viviamo e in cui si perde persino il senso stesso della comunità, ho creduto necessario dare un contributo per restituire memoria e valori che sono alla base di un’Italia che non voglia perire o vivacchiare alla giornata. L’esasperato egoismo ci porta a rivivere, come diceva Hobbes, la storia dell’”Homo homini lupus”.

La società è invasa da una violenza ferina che ci fa pensare alla fine della stessa civiltà, delle stesse regole di convivenza civile. Basta aprire un giornale, per rendersene conto.

Da un rapido sondaggio verso neo laureati delle Facoltà Umanistiche della nostra Università, ne esce un quadro sconcertante. Concetto Marchesi, Marcello Soleri, Filippo Burzio e Luigi Firpo sono nominativi sconosciuti. La sorprende questo spaccato?

Non mi sorprende affatto. Io ho un nipote al primo anno di università. Quando decisi di scrivere il libro gli feci leggere l’indice con i nomi dei personaggi e solo pochissimi gli erano noti. Colpa della scuola? Colpa dei giovani? Colpa della società? Colpa della TV?  E’ un po’ colpa di tutti. L’ignoranza è dilagante.

Non è colpa di internet perché di tutti e trenta i personaggi di cui ho scritto c’è traccia. C’è anche la loro fotografia. Ma crede che i quarantenni siano più colti? Avrei dei dubbi. Negli Anni’ 50 gli incolti provavano il complesso dell’ignoranza, oggi l’ignoranza è al potere, c’è gente che vanta la propria ignoranza, disconoscendo persino che la cultura consente lo spirito critico senza il quale prevale il dogmatismo. La sub- cultura di Twitter prevale sui ragionamenti fatti come si deve.

Quando si è impegnato a scrivere questo libro, oltre al valore di testimonianza da tramandare, cosa si è proposto?

Mi sono proposto di mettere per scritto tanti ricordi, anche personali, che sarebbero andati dispersi, ma ho pensato soprattutto  ai giovani lettori. Quindi ho  scelto uno stile piano, leggibile, non pedante. Ho evitato le note a piè di pagina per rendere più scorrevole il libro. Ho fatto rileggere, prima di consegnare all’editore, ad alcuni professori che mi hanno segnato le parti che potevano non essere sufficientemente chiare. Ho ampliato quelle parti o, laddove si è rivelato impossibile divulgare senza tradire, ho cancellato alcuni periodi. Io ho fiducia che nelle scuole mi consentiranno di presentarlo. Ci terrei molto.

Quali iniziative specifiche il Centro “Pannunzio” intende promuovere nei confronti degli studenti universitari?

Il Centro “Pannunzio” ha statutariamente  una attenzione particolare per il mondo dell’Università e della scuola, ma in tempi recenti, l’attenzione non basta. C’è una enorme difficoltà a dialogare. Il direttore dell’Osservatorio Culturale del Piemonte, Luca dal Pozzolo, lo ha messo molto bene in evidenza. Le nuove generazioni sono interessate alla musica e a internet, poco alle iniziative culturali. Il Centro “Pannunzio” da solo può far poco. Abbiamo giovani sfiduciati che guardano al futuro quasi senza speranza. Noi promuoviamo iniziative rivolgendoci ai giovani universitari, ma rispetto al passato, il loro coinvolgimento non è positivo. Forse solo più il mondo cattolico è rimasto attrattivo. E’ un fatto sul quale riflettere.

Oggi lei è maggiormente deluso sul ruolo formativo del cittadino da parte dell’Università, con le note conseguenze, o sul pessimo livello culturale, il procedere ondivago e l’impegno scarso dei nostri politici?

Se debbo essere sincero, io sono molto sfiduciato su tutto: università, scuola, cultura e politica. Eppure bisogna reagire e dare il nostro contributo a togliere la barca finita sugli scogli, anche se il nostro compito di cosiddetti intellettuali sarebbe stato quello di prevedere il naufragio.

Alcuni di noi l’hanno previsto ed hanno fatto qualcosa per evitarlo, ma l’ondata del ’68 e del post ’68  è stata travolgente. Il solo fatto che non siamo morti affogati, è stato un miracolo.

La mia generazione, se voleva, poteva guardare all’”Italia civile”, oggi di omologhi di quelle figure non c’è più nessuno. C’è il vuoto. Io non vedo nessun mio coetaneo che possa rappresentare un punto di riferimento ideale. Non vorrei essere troppo pessimista, ma non vedo nessuno.

E’ evidente che i giovani senza maestri non possono crescere. Al         massimo, c’è stato qualche professore, ma tra il maestro e il professore c’è un abisso. Bobbio era maestro e professore, oggi gli eredi di Bobbio, ma potrei dire anche di Venturi e di molti altri, sono davvero cosa diversa.

Quali prospettive o rimedi intravede per l’Italia malata e stanca?

Le  prospettive  sono pessime, i rimedi sarebbero troppo dolorosi per essere applicati. E non mi riferisco alla devastante austerità di Monti, ma semmai esattamente al contrario: una prospettiva di sviluppo che l’Italietta, nel tumulto  della società globalizzata, difficilmente può sperare.

Il disarmo è innanzi tutto morale. 

Ad esempio, ci accorgiamo tardivamente di aver esagerato nell’accogliere tutti, quando il livello di guardia  è stato superato da un pezzo.

Abbiamo confuso  l’etica dei principi che giustificavano l’accoglienza e che il Papa ha fatto sua, con l’etica della responsabilità che ci imponeva scelte prudenti e che è l’unica a cui possa ispirarsi uno Stato laico, anzi uno Stato tout-court.

Con il terrorismo, mi diceva recentemente Maurizio Molinari, dovremo convivere per anni. E’ una situazione molto peggiore di quella degli anni di piombo in cui sono vissuto.

Io non ho speranze, non mi cullo nel ricordo dell’Italia civile, continuerò a dare il mio modesto contributo per “curare” i mali che ci affliggono.

Se dovessi scrivere dell’oggi, parlerei di un' "Italia malata e stanca”, come dice lei. I problemi che abbiamo oggi sono immensi, persino superiori a quelli conseguenti alla II Guerra mondiale.

Nel 1945 c’era la volontà di ricostruire e di guardare avanti che oggi è assente. Dal 1968 in poi abbiamo sperperato un patrimonio di idee, di sacrifici, di serietà e di benessere  che la generazione post-bellica aveva faticosamente costruito.

Da quegli anni in poi non abbiamo più avuto statisti, ma solo gente capace di  procurarsi  e tenersi il potere, mandando a ramengo lo Stato e l’economia. Una classe dirigente pessima e spesso ladra. Bisognerebbe anche parlare della irresponsabilità dei sindacati, di apparati  dello Stato che hanno tollerato l’illegalità per troppi anni e di tante altre colpe, individuali e collettive, comuni al mondo delle imprese e non solo.

 E qui mi fermo perché non vorrei infierire troppo. Ma questa non è la valutazione soggettiva di un pessimista, è la mia analisi di storico perché, ormai, si può esprimere anche un giudizio storico.

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Articolo pubblicato il 15/01/2017