La grande sconfitta di Renzi.

Perché è sul lavoro che il toscano ha fallito.

A Matteo Renzi sarei disposto a perdonar molte cose.
La legge elettorale, per esempio, dichiarata per bocca dello stesso come innovativa e probabilmente copiata in futuro dai più, e recentemente cassata nelle sue parti principali, come il ballottaggio o le liste bloccate.
O la Riforma Costituzionale, bocciata dalla maggioranza dei cittadini italiani poco meno di due mesi fa, che ha, di fatto, bloccato per quasi un anno l’azione del governo.
Si potrebbe anche passare sulla riforma della Pubblica Amministrazione, considerata parzialmente incostituzionale, o dai pasticci creati con la Buona Scuola che ha imposto a molti insegnanti l’obbligo di spostarsi per centinaia di chilometri, salvo poi, recentemente, far dietrofront.
Mi andrebbe bene anche il sospetto salvataggio di Mps, le implicazioni tra banca Etruria e la famiglia Boschi, e le sparate oggettivamente fuori luogo di qualche ministro.

Quello che proprio non riesco a digerire del governo Renzi è stato il tema lavoro.
Come l’ha approcciato, e il suo fallimento.
Sia chiaro, la colpa non può ricadere tutta sull’esecutivo: Renzi ha ricevuto in eredità una situazione già di per sé allarmante, con una disoccupazione che ci poneva tra i fanalini di coda dell’Europa e una crescita che di fatto si è verificata solo nella testa dei soliti economisti.
Tuttavia, da un politico (auto)proclamatosi sull’onda del cambiamento e della creazione di nuovi posti di lavoro era lecito aspettarsi molto di più: dopo due anni di suo governo i numeri non sono sostanzialmente cambiati, e ciò non può che essere segnato come un grosso fiasco.

Secondo il consueto studio Istat, il numero  di chi cerca lavoro è in aumento (+0,2 % rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso): questo fatto, che in genere è visto positivamente, certifica che la gente non si sta facendo impaurire dalla crisi. Che poi riesca a trovare lavoro, questo è un altro discorso.

Il dato politico è che, nonostante il Jobs Act, gli sgravi e le detassazioni, e l’uso dei voucher i numeri sono grossomodo gli stessi del pre-ciclone Renzi.
Andando più nello specifico, il Jobs Act su cui, è bene dirlo, grava una richiesta di referendum abrogativo avanzata da più parti, ha portato in due anni ad un lieve calo della disoccupazione: da 12.3% di inizio 2015 ai 12% attuali, per un totale di un +417000 occupati.
Questo grande risultato è costato però un sacco di soldi allo Stato italiano: 11.8 miliardi di euro tra contributi e sgravi per un totale di 28’000 euro a occupato.

La distruzione dell’articolo 18 poi non si è rivelata la panacea di tutti i mali come molti esponenti del governo auspicavano.
Nemmeno il dramma che altra sinistra prevedeva, a dirla tutta.

Si, è aumentato il numero dei licenziamenti disciplinari, ma a percentuali limitate.
E come non citare i celebri voucher, nati col nobile intento di ridurre il nero, han finito per precarizzare ancora di più un mondo già precario.

Contestualmente sono usciti anche i dati degli altri paesi europei circa lo stato occupazionale: la Germania ha un tasso di disoccupazione che è la metà del nostro (5.9%) e perfino il Portogallo, considerato tra i meno virtuosi in merito, pare messo meglio di noi, con un tasso di disoccupazione che tocca il 10.2 %

Ma il vero dramma di questo paese, manco a dirlo, sono i giovani.
Nel range d’età tra 16-24 c’è un tasso di disoccupazione che va oltre il 40%. Inutile ricordare che non rientrano in questa percentuale i Neet (coloro che non lavorano né studiano ma che non cercano nemmeno, il 26% dei ragazzi tra i 19-34 anni), così come quelli “parcheggiati” all’Università in cerca di qualche proposta lavorativa o chi magari lavora, ma per poche ore settimanali.
Insomma, una carneficina che il governo Renzi non è riuscito minimanete a limitare.

Infine aumentano gli occupati tra gli Over 50, + 410 000 assunzioni, piccola consolazione per un’ampia fascia di popolazione che la pensione, semmai ci sarà, la scorge con il binocolo.

 

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Articolo pubblicato il 01/02/2017