La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini
Eugène Grasset, La ragazza col vetriolo (La Vitrioleuse, 1894).

Storie al vetriolo

“Vetriolo” è il nome popolare dell’acido solforico fumante, in passato celebre come mezzo di sfregio per vendetta delle donne tradite, indicate col termine di “vetrioleggiatrici” mentre “il vetrioleggiare” designa la loro vendetta.


La ricercatrice francese Karine Salomé nel 2013 si è occupata di questo fenomeno, che in Francia appare molto più frequente.


Gli attacchi col vetriolo si moltiplicano in Francia negli ultimi decenni del XIX secolo. “Un’altra tragedia del vetriolo” titolano i giornali del tempo. Nel solo anno 1889, sono menzionati 22 casi. Questa moda del vetriolo trae generalmente origine dalla gelosia e dal desiderio di vendetta. È spesso opera di donne, da cui la costruzione della figura della vetrioleggiatrice.


Ingannate, trascurate, abbandonate quando sono incinte, queste criminali intendono attentare al loro marito volubile, al loro amante infedele o colpire la loro rivale. Gli uomini non sono assenti da questa forma di violenza, anche se sono meno numerosi e attirano poco l’attenzione dei contemporanei. A fianco dei rari casi di protettori che vogliono punire l’abbandono delle loro prostitute o di lavoratori che prolungano così forti litigi iniziati in officina, compaiono mariti traditi, amanti licenziati.


Gli attacchi spesso seguono uno svolgimento semplice: agendo di sorpresa, l’aggressore lancia il vetriolo contenuto in un boccetta o in una scodella, sul volto della sua vittima, prima di lasciare la scena rapidamente. La vittima è poi rapidamente soccorsa da passanti o vicini di casa, allertati dalle grida di dolore. Le aggressioni non escludono il ricorso a intermediari.


L’esempio più noto è il l’affaire Gras, nel 1877, dal nome di questa vedova che incarica uno spasimante di gettare il vetriolo sul suo amante, che si rifiuta di sposarla.


Questi delitti passionali ricevono pene detentive relativamente lievi o assoluzioni giudicate scandalose. A volte, lo stesso querelante chiede l’indulgenza della giuria. I criminologi si impossessano del tema e condannano quello che interpretano come crimini di imitazione. Sorprendentemente, fanno poca differenza tra l’uso di una pistola e il ricorso al vetriolo.


La volontà di sfigurare, di attentare a ciò che costituisce l’integrità dell’individuo non sembra essere una delle principali preoccupazioni. Eppure, le vittime hanno subito gravi danni: i volti sono mutilati e bruciati profondamente la perdita della vista è frequente.


Le vetrioleggiatrici a volte riconoscono che lo sfregio è l’obiettivo primario. Vogliono impedire a colui che le ha abbandonate di fare delle conquiste o di suggellare una nuova unione. Durante il processo, alcune di esse si propongono persino di dedicare la loro vita alla cura della vittima che hanno brutalmente straziato.


Così la ricercatrice francese.


Nel 1894, il pittore e grafico francese Eugène Grasset (Losanna, 25 maggio 1845 – Sceaux, 1917), considerato uno dei pionieri del Liberty, raffigura “La Vitrioleuse”, una ragazza col vetriolo.


Iniziamo a conoscere la realtà torinese di questo fenomeno criminale con l’articolo “Le vetrioleggiatrici”, apparso nella rubrica “Reati e Pene” de “La Stampa”, del 26 gennaio 1900.


(Corte d’Appello di Torino) - Il vetrioleggiare, per certe donnine facili, è uno sport dell’amore non del tutto privo d’emozioni o d’audacia. Il romanzo di tutte queste eroine della fiala di vetriolo si riduce a breve storia: scherzano col fuoco, ne riportano scottature dolorose ed allora… scottano il viso all’altro.


Di rado lo vendicatrici del loro onore sono mostri… di virtù: amano chiamare debolezze le proprie colpe, assai pietose colla loro coscienza, e non sempre dopo la tragedia tutelano scrupolosamente quell’onore per cui hanno fieramente vetrioleggiato.


Ecco perché i giudici sono poco pietosi verso questa specie di amanti tradite, che fanno giustizia in tal modo di loro mano. Così è la storia, press’a poco, di Sacra Maria, che aveva destato qualche rumore nella nostra città […].


Amò, peccò: trovò nel suo stesso peccato il disgusto e l’abbandono dell’amante. L’attese allora in una trattoria e quivi gli scaraventò una fiala in viso. Ma poiché volle il caso che il colpo non sortisse effetto alcuno, l’animo suo non s’acquietò, e pochi giorni dopo attese novamente l’oggetto della sua ira e dei suoi furori sul pianerottolo della sua abitazione, decisa a freddarlo con un coltello che teneva nascosto sotto le gonnelle.


La Corte d’Appello confermò la sentenza del Tribunale, che condannò la Sacra Maria a sei mesi, commutandole però la reclusione in detenzione. 

Karine Salomé, Vitriol et châtiment, L’Histoire, 21-3-2013.

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Articolo pubblicato il 07/07/2017