Torino. Immobili nel mirino

Come, dal 2011 a oggi, il fisco ha rapidamente intaccato uno dei settori cardine dell’economia. Le proposte di Gianna Gancia in Regione Piemonte

Le imposte devono essere poche, semplici, senza addizionali, senza imbrogli”: con queste parole il Presidente Luigi Einaudi individuava le linee guida di una giusta ed equa imposizione fiscale.

Purtroppo oggi questi insegnamenti, dettati, oltre che dal buonsenso, dal riconoscimento del ruolo cruciale svolto storicamente in Italia dalla proprietà diffusa, sono oggettivamente stati soppiantati dalle ripetute “stangate” di  un fisco predatorio e, soprattutto, dimentico del principio costituzionale secondo cui non deve essere tassato il patrimonio ma l’eventuale reddito da esso scaturente.

I dati dimostrano infatti come, a partire dal 2011, il carico fiscale di natura patrimoniale (Imu e Tasi) gravante sulla proprietà immobiliare sia passato da 9 a 25 miliardi di euro, cui vanno aggiunti altri 20 miliardi di euro derivanti da imposte reddituali.

In Italia si assiste peraltro al paradosso per cui tali imposte (l’Irpef e le sue addizionali, comunale e regionale) vengono comunque applicate nella misura del 50% della rendita catastale anche in determinati casi in cui l’immobile, vuoto, non produce reddito.

In più, fino al 2015 i Comuni avevano la facoltà di riconoscere come abitazione principale anche gli immobili concessi in comodato d’uso gratuito a genitori e figli, applicando automaticamente per essi uno sconto sul valore di rendita catastale usato per calcolare l’imponibile Imu, oppure un’aliquota Imu agevolata.

Con la Legge di Stabilità 2016 si è invece modificata questa norma, introducendo dei requisiti più stringenti per poter accedere allo sgravio e, di fatto, penalizzando fortemente i sacrifici di quanti avevano, per esempio, acquistato degli immobili per garantire un alloggio ai figli (anche considerata l’attuale situazione del mercato del lavoro).

L’ingente peso del fisco, sommato ai problemi legati a eventuali situazioni di morosità degli inquilini, ha prodotto una generale perdita di fiducia nel mattone come forma di investimento, con ricadute negative importanti sul settore dell’edilizia e sulla quantità di immobili oggi disponibili per la locazione.

I dati Ansa rivelano come, nel 2016, il numero di abitazioni vuote in Italia abbia superato quota 7 milioni di unità (il 22,5% del totale), con quasi 526.000 immobili disabitati nel solo Piemonte (più di un quinto del patrimonio immobiliare regionale complessivo).

Lo stesso andamento negativo è testimoniato dal settore degli immobili a uso commerciale dove, secondo i dati dell’Agenzia dell’Entrate, 1 locale su 4 è attualmente sfitto, con circa 43.000 unità vuote in Piemonte.

Gli immobili commerciali, sui quali il fisco grava oggi con ben sette balzelli, sono di primaria importanza per il territorio, in quanto pre-condizione all’impianto di nuove realtà produttive: essi sono inoltre un presidio contro la desertificazione commerciale e il conseguente insorgere di situazioni di illegalità e di vandalismo urbano.

Per questo risulta preoccupante il contestuale incremento, su tutto il territorio nazionale, degli immobili collabenti, sui quali i proprietari non riescono più a intervenire per mancanza di fondi da destinare alla manutenzione. I dati Confedilizia del 2016 testimoniano infatti una variazione percentuale del + 3,9% nel 2015 rispetto al 2014 e addirittura del + 60,6% nel 2015 rispetto al 2011, anno in cui venne introdotta l’Imu.

In aggiunta a un carico fiscale cresciuto a dismisura che, usando le parole di Luigi Einaudi, “malamente si dice imposta ma è multa o penalità”, per i proprietari si profila periodicamente all’orizzonte lo spettro di nuovi e pesanti aumenti legati alla proposta di riforma degli estimi catastali portata avanti dai governi Renzi e Gentiloni.

Il calcolo delle rendite non sarebbe più basato sul numero di vani bensì sui metri quadri e, soprattutto, si adotterebbe una visione patrimoniale del Catasto, sganciata, anche in questo caso, da qualunque considerazione ispirata al civile principio di prelievo fiscale vincolato al reddito eventualmente percepito.

Con 62 milioni di immobili su tutto il territorio nazionale a rischio aumenti e ancora in assenza di una chiara possibilità, per il contribuente, di verificare ed eventualmente contestare l’aggiornamento della rendita, si fatica a intravedere in questo nuovo Catasto la fondamentale funzione di perequazione tributaria che dovrebbe essergli connaturata.

In questo scenario non certo incoraggiante, come si comportano il Piemonte e la sua città capoluogo?

Oltre ai dati già riportati, un recente rapporto realizzato da Federconsumatori e Adusbef sulle spese affrontate da una famiglia tipo, nell’anno 2016, per l’utilizzo di servizi essenziali (acqua, rifiuti, sanità, asili e trasporti) e per il pagamento delle addizionali Irpef regionali e comunali, ha evidenziato come Torino si collochi al secondo posto, dopo la capitale, nella classifica italiana delle città metropolitane più care.

Oltre all’addizionale comunale dello 0,8% - il massimo consentito dalla legge, la Regione Piemonte grava ulteriormente sui bilanci delle famiglie torinesi con aliquote di addizionali regionali sistematicamente più elevate rispetto a quelle delle altre regioni del Nord Italia arrivando a prelevare, secondo questo studio, una media di 990 euro all’anno contro i 619 euro della Lombardia e i 324 euro del Veneto.

Precorrendo i risultati di questo studio, già a Febbraio Gianna Gancia, capogruppo della Lega Nord in Regione, aveva segnalato l’incidenza delle addizionali Irpef piemontesi, presentando un ordine del giorno per chiedere alla Giunta Chiamparino la loro sensibile riduzione.

Contestualmente, la già Presidente della Provincia di Cuneo ha caldeggiato la disponibilità della maggioranza ad attivarsi presso il Governo nazionale affinché l’opzione fiscale di “cedolare secca” venga estesa anche agli immobili commerciali locati, al momento esclusi.

Questo, secondo le stime citate da Gianna Gancia, “produrrebbe oltre 190.000 nuovi contratti di locazione”, favorendo quindi “la ripresa delle attività produttive (soprattutto se medio-piccole) e conseguentemente dei consumi”.

Ritenuto altresì che ogni ulteriore aggravio della tassazione patrimoniale (purtroppo di recente invocato per l’ennesima volta dalla Commissione europea) non sia più tollerabile “in quanto progressivamente espropriativa del bene inciso”.

Con un secondo documento presentato al Consiglio regionale la stessa Gianna Gancia ha inoltre chiesto di eliminare la quota di imposta Irpef a carico degli immobili che non producono reddito e di introdurre provvedimenti a favore della proprietà diffusa, tra i quali agevolazioni fiscali per il risanamento di immobili gravemente danneggiati.

Naturalmente si auspica che le istituzioni, territoriali e nazionali, di fronte alle manifestate criticità del settore prendano finalmente coscienza del problema e lo affrontino in modo adeguato.

Da quanto detto, è evidente come sia necessario un drastico cambio di rotta: non si può pensare di continuare a fare cassa sugli immobili. Per essi si deve recuperare l’originaria concezione di investimento e di risorsa: investimento e risorsa per il proprietario (sul quale deve insistere una fiscalità equa) ma anche investimento e risorsa per la società tutta, rilevato il fondamentale ruolo economico e sociale che, nella società liberale, riveste la proprietà diffusa.

In merito, vale la pena concludere così come si è cominciato, con le parole di Luigi Einaudi il quale, in un articolo del 1961, già evidenziava come “l’autorità cittadina può costruire scuole, gli edifici di uso pubblico, i parchi ed i giardini, le chiese, i ricreatori e le palestre; ma tutti gli apprestamenti più perfetti non vivono, non operano se qualcuno non corre il rischio del costruire privato delle case di abitazione, di ufficio, di negozio”.

Sara Garino

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Articolo pubblicato il 21/07/2017