Certificare le tipicità per dare un ruolo globale alle nostre Mille Patrie

L’indispensabile capacità di valorizzare i prodotti tipici locali

Certificare l’origine e la qualità di una produzione tipica – e delle tipicità in genere – è un’azione/un processo di cui non si manca di sottolineare la strategicità per affermare un ruolo del nostro Paese nel contesto globale.

La questione è tornata al centro del dibattito in questi giorni in cui si sta affrontato la ratifica del Trattato Ceta tra Ue e Canada.

Le “mille patrie” che compongono l’Italia hanno ciascuna dei prodotti e delle produzioni tipici, oltre che delle tipicità immateriali, che vanno una comporre un patrimonio di biodiversità culturali che sono davvero un unico a livello planetario.

Sappiamo adeguatamente difenderlo? Riusciamo, in particolare riesce la classe dirigente nel suo complesso, a farne un innesco di processi di sviluppo?

Le Italie profonde, in particolare quei territori rurali o parzialmente tali che potrebbero essere una vera attrattiva per alcuni target di turismo, si interrogano adeguatamente e adeguatamente agiscono per dare una riconoscibilità a ciò che li contraddistingue?

Sul piano teorico la consapevolezza ormai ampia, valga per tutti il passaggio di un’opera collettanea sullo sviluppo locale che di seguito citiamo. “La capacità di valorizzare i prodotti tipici locali rappresenta un elemento decisivo per lo sviluppo endogeno dei sistemi territoriali, in considerazione delle importanti ricadute economiche, sociali e turistiche che esso può produrre. Attraverso la valorizzazione delle tipicità, infatti, la funzione meramente produttiva delle attività agricole viene integrata da nuove e diverse funzioni, tra cui la tutela dell’ambiente e del territorio, la conservazione della cultura e delle tradizioni rurali, creando spazi e luoghi interessati da nuove dinamiche di tipo economico e sociale” (Belletti e Berti, 2011).

Troppo spesso, però, il tutto è condizionato da incrostazioni ideologiche o dall’essere mera rappresentazione di un intervento.

La sfida, invece, è grande. Parte, anche, di una dialettica tra l’omologazione e l’identità. La certificazione e la difesa della tipicità, però, non è affatto da contrapporre alla globalizzazione (almeno nei suoi aspetti positivi).

Seguendo il modello di Pine e Gilmore (1999) è possibile affermare che “le produzioni alimentari, da semplici commodities evolvono a offerte economiche di livello superiore, ovvero di servizi e di esperienze, accrescendo il valore percepito, il livello di personalizzazione e la disponibilità a pagare da parte dei consumatori”.

Certificare per offrirsi come esperienza di un’identità. Un compito su cui si può costruire una “larga intesa”?

Marco Margrita

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Articolo pubblicato il 31/07/2017