FCA: Cosa ne sarà di Torino?

Il destino dell’ultimo simbolo dell’Italia industriale, pare ormai segnato.

La quiete agostana è stata turbata da due notizie un po’ insolite, ma collegate, in un periodo di torpore.

Il titolo “Fiat Chrysler Automobiles”, che sale in Borsa dell’8% e la notizia di contatti e smentite tra quella che era la “nostra” Casa automobilistica e una importante company cinese del settore. Tema, la cessione di quote rilevanti.

La storia della “nostra Fiat”, è ormai nota. L’avvocato Agnelli e la famiglia avevano designato alla successione al timone del Gruppo, Giovannino Agnelli, il figlio di Umberto. Giovane manager che, al suo attivo annoverava già risultati importanti nella conduzione della Piaggio.

Pur essendo aperto al Mondo ed al progresso, aveva garantito la centralità torinese della produzione.

Un destino crudele faceva sì che morì prima di assumere la carica.

La successione cadde sul ramo ebraico della famiglia e sul giovane John Elkann che, all’inizio della sua presidenza ha dovuto far uscire il gruppo da una congiuntura difficile.

Ma la Mission affidata da Elkann ad un manager capace come Sergio Marchionne era differente da quella che a suo tempo avevano ricevuto  Vittorio Valletta e Cesare Romiti e puntava sulla globalizzazione e sui risultati certi ed a breve termine.

Ora Marchionne sta avvicinandosi alla fine del mandato e, da segnali più volte captati, il giovane  Elkann che, tra l’altro sarebbe prossimo a trasferire la sua residenza a Milano, è maggiormente portato per gli affari e la finanza, senza doversi portare appresso il fardello manifatturiero.

Emblematica la cessione quasi totale de “La Stampa” al gruppo De Benedetti e la ormai certa prossima dismissione della Juventus. Elkann si trova più a suo agio tra le lobby della Borsa di Londra che tra le linee di montaggio di Mirafiori.

Quindi, cinesi o non, 2017 o anni successivi, il percorso è ormai segnato.

In un lucido articolo, pubblicato ieri il professor Francesco Forte, riassume le vicende della Fiat del ‘900 legate a Torino ed all’Italia evidenziando con chiarezza i vantaggi ricevuto dal Paese e gli anni gloriosi in cui era evidente l’identificazione della Fiat con l’Italia.

Ripensiamo alle migliaia di lavoratori che hanno lavorato sino alla pensione per poi vedere assunti in Fiat i propri figli, alla rilevante funzione sociale della Scuola Allievi di corso Dante che retribuiva gli studenti che sarebbero poi stati assunti nell’azienda.

Alle valide istituzioni sociali (dagli asili nido, alle mense aziendali, alle case di riposo ecc.) create dagli Agnelli e messe a diposizione dei lavoratori e delle famiglie, che soprattutto nel corso della seconda guerra mondiale, funzionavano eccome, non come lo sfasciume dei servizi che la Città di Torino dovrebbe oggi erogare, ma che fanno letteralmente pena, per non usare la parole maggiormente indicata, cioè schifo!

Ma, per essere realisti, ai Cinesi o agli Asiatici che un giorno non lontano potranno scalare la FCA, cosa potrà rappresentare Torino?

Il mercato del Sud Europa è pur sempre appetibile, ma quali molle potranno indurre nuovi investitori a fermarsi ed espandersi a Torino?

Mino Giachino, in una nota, ritorna, con competenza, sui temi a lui cari. Lo stato penoso delle nostre infrastrutture e l’importanza della logistica.

Viene citata la lungimiranza di Cavour che ostinatamente volle i trafori ferroviari del Frejus e del Sempione.

Le condizioni per la nascita del tessuto industriale del Piemonte, voluto da sindaci e ministri piemontesi, dopo lo sciagurato trasferimento della capitale a Firenze è stato l’humus sul quale le attività manifatturiere, Fiat incluse, hanno prosperato.

Ma allora, la classe politica del Regno di Sardegna e della nuova Italia, era costituita da uomini lungimiranti e votati al “Bene comune”.

Oggi chi dovrebbero essere gli interlocutori di multinazionali globalizzate che vedono le città e i centri produttivi come puntini sul mappamondo?

Sorvoliamo le “caricature” degli ultimi presidenti del consiglio che, come il tema dell’immigrazione conferma, si fanno irridere anche dai partners europei, figuriamoci dalle agguerrite company cinesi.

Ci riferiamo in prima istanza al potere locale. Come i maggiori rappresentanti delle associazioni datoriali hanno manifestato nei giorni scorsi, le allegre comari di Chiara Appendino hanno di fatto boicottato la prossima riunione del G7 a Venaria ed assisteremo ad un autunno di ulteriori figuracce.

E la Regione? Abbiamo di recente stigmatizzato la fuga dell’industria e di altre manifestazioni che avrebbero potuto far conoscere positivamente Torino nel mondo.

Ma per invertire la tenenza, sarebbe necessario crederci ed avanzare proposte attinenti, volte innanzitutto a abbattere i lacci e lacciuoli burocratici, sopperire alle esigenze formative delle industrie che si potrebbero insediare nel territorio ed intervenire con provvedimenti mirati su logistica e trasporti.

Per poter intervenire, dovrebbe esserci innanzitutto la volontà politica, per poi possedere l’autorevolezza per intrattenere rapporti e prospettare soluzioni che possano essere accattivanti per coloro che si accingano ad investire nel territori.

Cosa ne pensa Sergio Chiamparino? Si è anche lui convertito alla decrescita felice?

In caso contrario, quando aspetta a togliersi dai piedi assessori inetti, ma obbedienti al diktat della CGIL e dell’estrema sinistra che già negli anni ’80 si prodigava con scioperi ed istanze ad ogni livello per la deindustrializzazione di Torino?

Domani potrebbe essere già troppo tardi.

Chiamparino, serve una mossa, ma da subito!

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Articolo pubblicato il 16/08/2017