Demagogia e Antipolitica

Il voto per il ridimensionamento dei vitalizi dei Parlamentari è un misto di demagogia e di antipolitica.

È anche una palese violazione di uno dei capisaldi della civiltà giuridica: l’irretroattività delle leggi.

Il suo vero bersaglio sono i “politici” quali protagonisti della storia d'Italia.

Prendendo a pretesto condizioni oggettivamente assurde (ma create da norme approvate dal Parlamento e dai consigli regionali), quel voto ha lo scopo di “dare una lezione” a chiunque abbia rappresentato i cittadini alle Camere e nelle Regioni.

In sintesi è una “legge” profondamente antidemocratica.

Essa ripropone al centro dell'attenzione l'interrogativo antico: chi sono i “politici”? Secondo il pregiudizio corrente, gonfiato ad arte dall'ormai trentennale polemica contro la “casta”, essi sarebbero una congrega di parassiti, che, occupato il potere, se ne sono assicurati e se ne scambiano profitti e benefici, come fossero feudatari.

In “Ribelli d'Italia” (ed. Marsilio, finalista al Premio Acqui Storia) Paolo Buchignani insiste su un aspetto solitamente trascurato del “sogno rivoluzionario da Mazzini alle Brigate Rosse”: come la “conservazione illuminata”, anche la “rivoluzione” è una professione, sia “di fede”, sia di “tecnica”.

Richiede studio, attitudini, lunga esercitazione, dottrinale e pratica, e solitamente si risolve in “partito d'azione”.

Perciò a volte il rivoluzionario mancato (o clamorosamente fallito) sopravvive a se stesso come profeta.

Nei corsi e ricorsi della storia, a distanza di tempo il suo “insegnamento” può essere riletto, aggiornato, rilanciato.

Mazzini stesso, prima di ideare la Giovine Italia e di intraprendere un quarantennio di agitazioni per l'avvento dell'Italia unita in forma repubblicana, si fece iniziare alla Carboneria, una tra le società segrete più intricate d'inizio Ottocento, contenitore di programmi e catechismi diversissimi e persino opposti.

Per di più, come egli stesso narrò, un alto dignitario massonico, con lui detenuto nel carcere di Savona, prima di confidargli segreti importanti, battendogli le dita sulla fronte gli conferì l'iniziazione “sul campo” (poi detta anche “sulla spada”), praticata dai grandi maestri e/o da loro plenipotenziari in circostanze eccezionali.

Buchignani non cita il capofila dei rivoluzionari europei, Filippo Buonarroti, già a fianco di “Gracco” Babeuf nella Cospirazione degli Eguali, finita nel maggio 1797 con il loro quasi completo annientamento.

Sulla sua traccia, rivoluzionari di lungo corso furono poi tutti i protosocialisti, anarchici, promotori della prima, seconda e terza Internazionale, come dei movimenti e delle correnti che agitarono l'Europa sino al crollo dei totalitarismi del secolo scorso.

Fu il caso, per stare all'Italia, di Enrico Bignami (fondatore di “La Plebe”), di Andrea Costa (discepolo di Giosue Carducci, deputato dal 1882 del partito socialista rivoluzionario di Romagna, poi via via meno intransigente e morto gran maestro aggiunto del Grande Oriente d'Italia).

Anche Filippo Turati, che nell'agosto 1892, profittando degli sconti ferroviari concessi per le feste in onore di Cristoforo Colombo (cadevano i quattrocento anni dalla “scoperta” dell'America), fondò a Genova il partito dei lavoratori, poi partito socialista italiano, rimase deputato sino a quando fu dichiarato decaduto dal Parlamento, con una tra le leggi più discutibili del governo Mussolini: l'esclusione degli “assenteisti”.

Alla misura iniqua scampò la pattuglia liberale guidata da Giovanni Giolitti, morto deputato in carica il 17 luglio 1928.

Alla Camera era entrato il 29 ottobre 1882: quarantasei anni prima.

In quasi mezzo secolo aveva imparato a conoscere uomini e cose e a capire (lo spiegò in una famosa lettera alla figlia Enrichetta) che, se deve tagliare un abito per un uomo che ha la gobba, per riuscir bene il sarto bravo deve tener conto della deformità del suo cliente.

Così era (ed è) la legislazione più adatta agli italiani: occorreva (e occorre) pensarla non per “uomini” in astratto, ma per come essi sono, plasmati da una storia millenaria.

Deve mirare a migliorarli, ma in una prospettiva di lungo periodo, senza scorciatoie illusorie.

Appena eletto deputato, nel 1882, Giolitti fece parte della commissione incaricata di decidere l'introduzione del voto femminile, almeno amministrativo.

Lo ricorda Vincenzo Pacifici in un bel saggio pubblicato dalla “Rassegna storica del Risorgimento”, la rivista più che centenaria ottimamente diretta da Romano Ugolini.

Tutti convinti dell’opportunità di approvarla, i deputati furono però d'accordo che, al momento, le donne erano succube dell'influenza “del padre, del fratello, del marito, del figlio e talora del confessore”, sicché il loro voto era “inutile o pericoloso”, come argomentò l'albese Annibale Marazio, barone di Santa Maria Bagnolo, deputato per quasi mezzo secolo e senatore dal 14 giugno 1900.

La longevità della classe dirigente (la rivoluzionaria, ora narrata da Buchignani, e la moderata o conservatrice, già studiata da pensatori quali Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels) è tra i capisaldi della riflessione sulla scienza della politica e, ancor più, sulla filosofia politica, oggi quasi del tutto smarrita a Montecitorio.

Lo prova appunto la legge (palesemente incostituzionale) sulla riduzione delle pensioni ai parlamentari.
Demagogica e antipolitica, essa declassa la rappresentanza e l'esercizio della sovranità.

La sottrae all’investitura da parte degli elettori e la sottopone a gruppi (o “ditte”) più o meno occulti, che si arrogano il diritto di decidere candidature, appartenenza, espulsioni, durata in carica, emolumenti, ecc. , in manifesto contrasto con la Costituzione.

Il legislatore ha certo titolo per correggere errori, ma non può cancellare i cosiddetti “diritti acquisiti”.
Nello specifico, così com’è configurata, questa “riforma” ha un amaro sapore di “punizione” della dirigenza del primo settantennio della Repubblica, quasi essa sia stata composta solo da inetti e profittatori.

Non v'è dubbio (e le cronache ne furono e ne sono zeppe) che taluni parlamentari abbiano esercitato poco e male la carica e che talora abbiano compiuto reati: ma questo non ha nulla a che vedere con la legittimità dei benefici fissati dalle leggi.

Il rispetto per il mandato elettorale ispirò la decisione dell'Assemblea Costituente (contro il parere di Luigi Sturzo) di proclamare senatori di diritto per la prima legislatura repubblicana i deputati dichiarati decaduti dal governo Mussolini.

Fu una scelta saggia e dalle ripercussioni politiche importanti, perché proprio quei senatori (in massima parte liberali, democratici, laburisti e repubblicani e, talora, dai significativi trascorsi massonici) privarono la Democrazia Cristiana della maggioranza assoluta alla Camera Alta e indussero Alcide De Gasperi (gli piacesse o meno) ad ampliare la maggioranza di governo, comprendendovi liberali, repubblicani e socialdemocratici): non un suo “dono grazioso”, ma una necessità ineludibile per garantire stabilità.

Anzi, furono proprio alcuni di quei “senatori di diritto” a propugnare poi la riforma elettorale passata sotto il polemico nome di “legge truffa”, cioè il piccolo premio di maggioranza attribuito alla coalizione che nelle elezioni del 1953 avesse superato il 50% dei voti più uno.

La coalizione fu varata, ma purtroppo fallì di poco l'obiettivo.

La sua sconfitta segnò l'inizio del declino del “centrismo”, sfociato sette anni dopo nei fatti del luglio 1960, seguiti dalla lunga gestazione del Sessantotto e dal suo lungo contorto cammino, accennato da Buchignani.

Dalle macerie causate da quella insoddisfatta “voglia di rivoluzione”, che eccitò operisti, cattolici e destre radicali, occorreva uscire col ripristino dei capisaldi dello Stato di diritto: gerarchia e meritocrazia.

La storia, però, ebbe altro corso.Ora, in un Paese affannato e in presenza di eventi di gravità estrema (il razionamento dell'acqua nella Città Eterna, l'annunciato fallimento di aziende di trasporto pubblico...), il Paese non ha davvero bisogno di aprire un altro contenzioso tra suoi poteri apicali: a tutto danno dell'immagine della “politica”, patrimonio indivisibile dell'intera storia d'Italia, dalla sua unificazione a quel poco che di coscienza nazionale ancora sopravvive.

Ma un po' ovunque si affacciano i nuovi mostri dell'Apocalisse, demagoghi che annunciano di voler “far nuove tutte le cose”.
La risposta sta nel ritorno al primato della politica e del suo vero fondamento: la Storia.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 20/08/2017