La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

I “Martiri della Libertà” del 1799: Vincenzo Sales Vicendetti

Questa storia è ambientata a Torino, diventata repubblicana dopo l’abdicazione del re Carlo Emanuele IV a favore dei Francesi invasori, avvenuta nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1798. Il 12 dicembre è nominato un governo provvisorio formato da 25 elementi (17 uomini di legge, 3 medici, 3 preti cattolici e un pastore valdese), presieduti dallo storico Carlo Botta.


Seguono innalzamenti solenni di alberi della libertà, discorsi apologetici, ampollosi rendimenti di grazie, manifestazioni demagogiche, come i roghi pubblici delle pergamene con i titoli di nobiltà: lo storico Giorgio Vaccarino, autore del libro “I giacobini piemontesi (1794-1814)” (Roma, 1989), li considera atti di servile opportunismo ma anche espressioni di esultanza popolare per un mutamento politico da lungo tempo sospirato.


Il mattino del 29 gennaio 1799, la piazzetta di Santa Teresa ed il tratto di via che la fiancheggia traboccano di folla. Al tempo, il popolo si accalca spesso alle cantonate dove sono affisse le novità oppure intorno a qualche improvvisato oratore che tuona contro «gli odiati tiranni». Ma quel mattino si tratta di qualche cosa di straordinario. L’attenzione si concentra sulla porta dell’adiacente convento dei Carmelitani scalzi, dove si osserva una grande agitazione di berretti repubblicani con pompose coccarde tricolore, di guardie nazionali affannate mescolate a uniformi dei Francesi, con pennacchi di generali e di aiutanti.


La moltitudine, accorsa dai diversi rioni della città, si chiede cosa succeda e si innervosisce, vociando impaziente e indignata contro la tirannide, mentre i monelli, accorsi per primi, hanno scalato i piedestalli delle colonne della chiesa e le inferiate e contribuiscono con schiamazzi, fischi, grida e scherzi, alla confusione dell’immensa folla.


Bisogna sapere che il governo ha assegnato il convento dei Carmelitani scalzi come ricovero alla caterva di sedicenti vittime della precedente tirannide: così tutti questi improbabili patrioti repubblicani, divenuti «pettoruti e tracotanti dominatori del giorno» vivono in problematica coabitazione con i frati che non sono stati allontanati e sono divenuti le vittime. Al posto dei salmi si odono canzoni rivoluzionarie e schiamazzi, si gioca a carte sulle panche dove i frati meditavano. Quando passa un frate, è subissato da battute e da grida sguaiate.


I patrioti repubblicani hanno però stabilito una «cordiale fratellanza» con Frà Giuseppe, il portinaio: trincano insieme e, alla sera, gli fanno narrare storie dei frati con cui convivono.


La vigilia del 29 gennaio, si è parlato della crudeltà dei frati che hanno sempre punito i loro confratelli per piccole mancanze contro le regole dell’ordine oppure per disobbedienze, anche motivate, al volere dispotico dei superiori.


Tra lo stupore generale, il sempliciotto Frà Giuseppe rivela che da più di quarant’anni si trova nel convento una vittima del dispotismo dei frati.


I focosi patrioti subito chiedono al padre priore le chiavi del misterioso nascondiglio, discutono fino al mattino, mentre la folla attende fuori. Vincono la resistenza con la minaccia di ricorrere alla ghigliottina e il pauroso padre priore consegna le chiavi. Subito i patrioti scendono nei sotterranei oscuri del convento, aprono tre porte ferrate e giungono davanti ad un lurido bugigattolo dove trovano un prigioniero che vive fra l’immondizia, con un  pagliericcio per dormire. Riceve poca luce da due stretti buchi e il cibo gli viene somministrato per mezzo di due tubi di latta che attraversano un finestrino assicurato da doppia inferriata.


Non è facile per i patrioti liberatori convincere il miserabile prigioniero ad uscire,mentre il primo Aiutante di campo del generale francese Emanuele Grouchy, comandante delle truppe francesi in Piemonte, accorre in tutta fretta. Per persuadere il prigioniero a lasciare la cella, visto che non può sapere dei recenti rivolgimenti politici, gli parlano di un ordine del Re, poi vengono tirati in ballo il Papa, Dio, San Francesco di Sales. Solo in virtù di Santa Ubbidienza, il prigioniero finisce per arrendersi ed esce dicendo «Mi rimetto a voi sperando che sarete più umani de’ miei confratelli».


Quando la folla vede finalmente comparire sulla porta del convento il misero frate sorretto dai patrioti e dall’Aiutante del generale Grouchy, la commozione non ha più freno e scoppia un applauso fragoroso.


La pietosa storia di quella «vittima del dispotismo fratesco» si sparge molto velocemente per tutta Torino.


Il frate, battezzato sul campo «cittadino e martire della libertà», è posto in carrozza e viene condotto in trionfo per tutta la città, scortato da soldati francesi e dai patrioti liberatori. Il poveretto si chiama Vincenzo Sales Vicendetti e il suo nome è sulla bocca di tutti. I Torinesi si affollano al suo passaggio e lo acclamano mentre le signore, commosse e piangenti, dai balconi agitano fazzoletti bianchi per salutarlo.


L’esaltazione dei Torinesi, notoriamente seri, è indescrivibile. Al nuovo martire della libertà è tributato uno splendido trionfo mai visto prima. La folla è frenetica: il povero ex frate, diretto all’ospedale per essere ricoverato, deve prima vedersi ballare intorno la patriottica carmagnola ed essere frastornato da canzoni e inni della libertà.


La follia collettiva investe anche gli uomini del governo che dovrebbero pensare al modo di rimediare al disperato dissesto delle finanze. Ascoltano invece lo storico Carlo Botta che legge il Rapporto della Società patriottica sull’escarcerazione del frate di S. Teresa, e che propone controlli per scoprire eventuali altri casi analoghi.


Intanto, col calare della notte, il popolo torinese eccitato immagina altri orrori commessi nel segreto dei chiostri e così si riunisce in assembramenti minacciosi davanti agli altri conventi: in tutti vorrebbe trovare vittime rinchiuse nei sotterranei e scoprire altri orrendi delitti!


Perché l’invasione dei conventi non diventi lo sport preferito dai turbolenti Torinesi, deve intervenire il Municipio di Torino repubblicana: il proclama datato 10 Piovoso, anno 7° repubblicano, primo della libertà piemontese (29 gennaio 1799), promette un fermo intervento ma vieta riunioni illegali per svolgere ricerche indipendenti da quelle delle autorità.


Lo firma il cittadino Genesy, Presidente della Municipalità, già calzolaio.


La calma si ristabilisce presto ma non per merito del proclama municipale.


Si viene a sapere che l’eroe del giorno precedente, la vittima del dispotismo, il martire della libertà, è soltanto un povero pazzo che gli altri frati, per non disonorare il convento, hanno segregato, con poca umanità ma con metodi non molto dissimili da quelli impiegati negli orribili manicomi del tempo!


Il trionfo di quello che è stato l’idolo di un giorno, si è risolto in uno scherzo di cattivo genere «che la fortuna aveva voluto giocare alla esaltazione repubblicana», anche perché in seguito i realisti alludevano ironicamente all’episodio con imbarazzo e irritazione dei patrioti.


 La ricostruzione di questo episodio è basata sul saggio “Torino e i Torinesi sotto la repubblica. Bozzetti e Memorie. I Martiri della Libertà”, a firma O., pubblicato in “Curiosità e ricerche di storia subalpina pubblicate da una Società di studiosi di patrie memorie”, Vol. I, Torino, 1874 (a cura di Nicomede Bianchi). O. dà prova di tagliente ironia nei confronti dei repubblicani piemontesi del tempo e ho fatto molta fatica a ridurre a proporzioni accettabili il suo brillante, ma purtroppo lungo, racconto. Sono sue le citazioni poste fra virgolette.

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Articolo pubblicato il 17/09/2017