Isis, a Torino 5 fermi, ma per le manette bisognerà aspettare.

Triste storia italiana: la Procura ordina l’arresto, ma prima serve il parere della Cassazione.

La notizia è passata sottotraccia, solo poche righe qua e là su alcuni giornali, come se l’idea di avere una cellula terroristica tra che passeggia nel proprio quartiere sia una piacevole consuetudine, ma tant’è.
L’assurdo della vicenda non lo si raggiunge con il fermo dei cinque ragazzi, per cui ci sarebbe solo da fare i complimenti ai Carabinieri per l’azione svolta, bensì quando la Procura ordina l’arresto che però non è eseguibile per questioni “procedurali”.


Ma andiamo con ordine: i fatti parlano di sette ragazzi tunisini emigrati in Italia nel 2014: per poter ottenere il permesso di soggiorno si iscrivono all’Università di Torino, scelgono la facoltà di Lingue, e da studenti modello quali sono non sostengono alcun esame: ne falsificano qualcuno solo per rimanere in regola con i rinnovi dei permessi: uno pare riesca perfino a ottenere una borsa di studio, miracolo all’italiana!

Passa il tempo e Nafaa Afli (26 anni), Marwen Ben Saad (30), Bilel Chihaoui (27), Bilel Mejri (25) e Bilel Tebini (29) - questi i nomi- iniziano a mostrare una certa simpatia verso la causa islamica; attraverso i profili facebook si moltiplica la condivisione di link inneggianti l’Isis, l’insulto nei confronti dei musulmani sciiti e il disprezzo verso la società Occidentale.

I Carabinieri iniziano a monitorarli: dalle intercettazioni emerge la tristezza per alcuni loro compagni morti in Siria, così come gli incoraggiamenti rivolti a un paio d’amici partiti per Istanbul con l’intenzione di proseguire e diventare Foreign Figheters.


Si spostano nel centro italia, Pisa, e iniziano a spacciare. A causa di ciò tre verranno arrestati, 3 anni e sette mesi di reclusione che stanno ancora scontando, uno viene espulso dall’Italia nel 2016, pare oggi sia in Tunisia.

Gli altri due tornano nel Nord.

Da una chiamata vien fuori la volontà, da parte di uno dei due, di colpire in Italia.
Secondo le indagini i tunisini stanno provando a costituire una cellula nel Nord Italia: si scopre anche che nel passato due di loro avevano partecipato a un comizio di Abu Ayad, capo di Ansa Al-Sharia, organizzazione egiziana aderente all’Isis. Per il nucleo operativo dei Ros coordinato dal Pm Andrea Padalino può bastare: il 17 maggio scorso il pm chiede l’arresto di tutti e cinque i tunisini con l’accusa di terrorismo internazionale.


Un mese dopo il gip respinge l’accusa: secondo le motivazioni i ragazzi avrebbero idee pericolose e sarebbero a rischio radicalizzazione, tuttavia non hanno commesso alcun reato.

Il Pm fa ricorso al Tribunale del Riesame, viene accettato: secondo loro “gli elementi emersi dall’attività dei Ros superano la soglia di gravità indiziaria”.
Finalmente l’arresto?
Macchè: la legge in questi casi è chiara: nel caso il Tribunale del Riesame accetti il ricorso gli imputati possono a loro volta fare ricorso in Cassazione, entro 10 giorni: qualora essa lo accetti si perderebbe ulteriore tempo


Risultato? E’ oltre sei mesi che cinque ragazzi tunisini sono stati accusati di terrorismo e non si è fatto assolutamente nulla: sono stati liberi di scorrazzare per la penisola più o meno indisturbatamente approfittando del solito ping pong della giustizia italiana.

 

Lungaggini, ricorsi, Cassazioni, interpellanze, tutto intasa il processo giuridico italiano, impreparato a fronteggiare determinate emergenze.
Presumibilmente siamo stati fortunati e abbiamo avuto a che fare, in questo caso, con persone che non avevano l’impellenza o la capacità di commettere stragi.
Ma non sempre può andarci bene.

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Articolo pubblicato il 17/11/2017