Al servizio della tecnologia.

Senza più sorprenderci per la tecnologia, possiamo ancora stupirci per qualcosa?

Il celebre scrittore di fantascienza Arthur Clarke, famoso per il suo “2001 Odissea nello spazio”, sosteneva che una tecnologia sufficientemente avanzata può essere indistinguibile dalla magia.

Questo ha fatto sì che per secoli, e non solo per le invenzioni tecnologiche, l’uomo si sia stupito dinanzi a ciò di cui non conosceva la spiegazione (si pensi all’attribuzione degli eventi atmosferici alle divinità del mondo antico) o davanti a scenari futuri impensabili, come quelli prodotti dalla mente di grandi scrittori di fantascienza come Wells e Verne.

Se c’era una cosa che la fantascienza riusciva a tenere alta era l’emozione nel poter credere (im)possibile che l’uomo potesse arrivare in punti lontani della galassia, effettuare trapianti, sostituire parti del proprio corpo con parti meccaniche, clonare essere viventi, …

La tecnologia, che ormai cresce a ritmi vertiginosi secondo la nota Legge di Moore, è arrivata a un punto tale che anche per le frontiere non ancora raggiunte (ad esempio il teletrasporto o la possibilità di costruire città su altri pianeti) noi oggi abbiamo per così dire una consapevolezza che un tempo non avremmo avuto: sappiamo che è solo questione di tempo, ma riusciremo a fare tutto ciò che possiamo immaginare.

Avere cyborg, ossia umani con arti meccanici, resta per ora un qualcosa sul quale i costi e gli impatti etici sono consistenti, ma al di là di questo quasi tutte le conoscenze, tecnologica, medica, biologica, sono alla nostra portata ed è questo a toglierci in parte lo stupore del futuro.

Ancor più, se pensiamo all’intelligenza artificiale, ci rendiamo conto di come in un futuro non poi così lontano la capacità computazionale degli elaboratori sarà tale da ritrovarci con l’incubo che robot e computer potrebbero ribellarsi a noi.

Se oggi vediamo la tecnologia come un qualcosa al nostro servizio, già ci stiamo abituando a vivere con l’ansia di essere noi al suo servizio, così sempre occupati e preoccupati di starle al passo, con aggiornamenti, presi dallo shopping compulsivo dell’ultima innovazione, dell’ultima versione software o hardware (ben presto dovremo buttare le nostre smart TV poiché non adeguate ai nuovi segnali digitali previsti dal 2020).

In un noto romanzo di Samuel Butler, intitolato Erewhon, lo scrittore ipotizzava una società nella quale si era rinunciato a tutta la tecnologia raggiunta, poiché ci si era resi conto di come l’uomo altro non era che lo strumento attraverso cui le macchine si riproducevano, sistema che per altro, secondo l’autore, esiste già in natura visto che sono le api ad esempio a far riprodurre i fiori trasportando il polline.

La prossima frontiera, dunque, di cui potremmo aver paura non sarà quella dell’epoca in cui riusciremo attraverso la tecnologia a realizzare tutto, ma quella in cui sarà la tecnologia, la robotica, l’intelligenza artificiale stessa a superarci in conoscenza e coscienza.

Speriamo di non diventare così schiavi del miglioramento tecnologico fine a se stesso sino al punto di ritrovarci come nel racconto Golem XIV, di Stanislaw Lem,  in cui il supercomputer cessa di comunicare con gli uomini poiché giunto a un così alto livello intellettuale che ritiene stupido e superfluo parlare con quegli esseri inferiori.

Pensare a un futuro fatto di pace e di distribuzione della ricchezza per tutti potrebbe apparire retorico, scontato e per molti buonista, ma in realtà è proprio quella l’unica fantascienza di cui dovremmo stupirci per non essere riusciti ancora a realizzarla.



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Articolo pubblicato il 28/12/2017