Sessualità dietro le sbarre.

Il detenuto costretto a orientarsi inevitabilmente verso l'omosessualità e alla idealizzazione di una dimensione amorosa impraticabile.

A proposito del carcere, e della tortura, la privazione della libertà e l'obiettivo della rieducazione, spesso mancato, non possono essere anteposti alla natura e agli istinti dell'uomo.

Mi riferisco alla sfera sessuale e affettiva, che nessuna pretesa rieducazione, neanche in nome di principi religiosi, può limitare.

In nome di quale astratto principio io devo interdire l'istinto e l'esercizio della sessualità, costringendo un detenuto a orientarsi inevitabilmente verso l'omosessualità e alla idealizzazione di una dimensione amorosa impraticabile?

Io conosco bene questa condizione, perché, con minor trauma, l'ho vissuta in collegio, nelle sordide camerate, nei bagni alla turca.

Lì ho avvertito la frustrazione sessuale dei preti, e ho sfiorato le attrazioni bisessuali di alcuni compagni predisposti. E non era un carcere! E i fine settimana i genitori ti portavano fuori, restituendoti all'aria libera.

Ricordo che, una volta, salii su una vetturetta dell'autoscontro, invitando una ragazza con me. Alla fine della corsa, il prete che ci accompagnava pretese di salire al posto della ragazza; e io lo mandai al diavolo, aprendo una stagione di conflitti, che segnò il mio successivo soggiorno (e anche il mio carattere) fino a quando fui cacciato.

Ora, come può lo Stato torturare in carcere, fino a deviarne la sessualità, un uomo che si pretende di rieducare, come dispone l'articolo 27 della Costituzione? Come la mettiamo? E i magistrati non ne avvertono la responsabilità?

Vittorio Sgarbi - ilgiornale.it

 

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Articolo pubblicato il 31/12/2017