BEST OF 2017 - Parte 1

Il meglio del cinema dell'anno appena concluso

Cominciamo questo 2018 con un "best of" dell'anno appena trascorso, che ha avuto un buon numero di uscite di alto livello attesissime dal pubblico di tutto il mondo.

Film che hanno diviso le opinioni, come al solito, tra giudizi come "capolavoro" e "disastro assoluto" che a quanto pare non ammettono più vie di mezzo più sensate come "ottimo" o "buono" o "più che dignitoso".

La libertà di internet ha dato voce nel bene o nel male a tutti quanti, a volte tirando fuori pagine o discussioni interessanti dove si mira più a consigliare che a tranciare con giudizi taglienti questo piuttosto che quell'altro film.

Di solito più esagerazioni che portano i soliti aggettivi di "sopravvalutato" o "stile fine a sè stesso", come se per un regista oggi giorno fosse una colpa avere uno stile e distinguersi dalla massa anzichè il contrario.

Ma non lasciamoci prendere anche qui dal diluvio di giudizi pontificatori di chi ha già la verità in tasca ancor pirma di aver visto un film, mentre andiamo a consigliare quelli che a opinione di chi scrive sono i tre film più riusciti dell'anno.


BLADE RUNNER 2049 (Denis Villeneuve)
Regista e sceneggiatore canadese che non fallisce mai un colpo, già autore del magnifico "Arrival" che fece altrettanto discutere alla sua uscita nelle sale; regista sulle cui spalle gravava il non facile compito del seguito di uno dei film di fantascienza più acclamati e amati di tutti i tempi; seppur altrettanto discusso e sottovalutato all'epoca in cui uscì nei cinema di tutto il mondo.

Partendo dal fatto incontrovertibile che "Blade Runner" del 1982 di Ridley Scott rimane insuperabile, Villeneuve sceglie saggiamente di puntare al sequel costruendo la storia sulle basi dell'originale, ma prendendo una deriva e uno stile visivo tutto suo e assolutamente riconoscibile.

Rimane molto più sullo sfondo quindi il tema della ribellione e la libertà che erano il motore del primo film, mentre la storia si concentra molto più (saggiamente) sulle storie d'amore dei due cacciatori di replicanti.

Ryan Gosling, cacciatore di replicanti innamorato del suo ologramma virtuale (la bella e brava Joy Saltarelli) che è praticamente l'unico suo contatto umano, in un mondo che lo disprezza in quanto replicante, anche se poliziotto e cacciatore dei suoi simili.

Parallelamente riviviamo negli eventi narrati lo storico amore tra Harrison Ford e Sean Young, conoscendo cosa loro accaduto negli anni successivi alla conclusione del primo film.

Una storia che va ben oltre il mero "fan service" per strizzare l'occhio furbescamente agli appassionati storici, ma anzi fungono da spinta propulsiva a tutto lo svolgersi della trama di questo nuovo capitolo.

Un film che riprende e amplia le atmosfere di degrado urbano e tecnologico del 1982, portandoci ben oltre i confini della città nelle periferie sommerse dai rifiuti e gli scarichi industriali, dove vivono i reietti della società che ormai si mescolano tra replicanti in fuga e umani stessi, per un motivo o per l'altro banditi a vita dallo sterminato centro abitato di Los Angeles.

Inutile parlare delle scenografie e della fotografia, magnifiche in ogni fotogramma come solito per i film di Villeneuve; che unisce alla perfezione lo stile "sporco e bagnato" del cyberpunk classico all'eleganza e la perfezione armoniosa degli edifici delle "Wallace Industries", nuovo colosso economico che scopriamo a inizio film aver sostituito l'ormai decaduta "Tyrell Corporation".

Una storia finalmente raccontata coi tempi giusti e la dovuta calma che merita, nelle oltre due ore e mezza di spettacolo visivo e narrativo che il regista regala ai suoi spettatori.


MADRE! (Darren Aronofsky)
Altro regista che negli ultimi anni ha infarcito la sua filmografia sfornando un film meglio dell'altro, fin da "Pi Greco - Il teorema del delirio" agli ultimi fantastici "The Wrestler" e "Il cigno nero".

Aronofsky divide ancora il pubblico con questo suo "Madre!", scombinato ma impagabile misto di generi cinematografici che spiazza lo spettatore in ogni sua scelta, partendo forse dalla protagonista Jennifer Lawrence che è diventata negli ultimi anni una acclamata star del cinema.

Moglie in dolce attesa di Javier Bardem, scrittore in crisi creativa con cui vive isolata per aiutarne la concentrazione, se non che la coppia riceve la visita inaspettata di un ospite inatteso.

Ospite, Ed Harris malato che si "auto-invita" nella casa nonostante le rimostranze della Lawrence, visita cui fanno seguito la moglie (una glaciale Michelle Pfeiffer) e poi i figli e altri familiari ancora, in un crescendo che porta al parossismo isterico e distrutivo nella casa e l'esasperazione totale della povera donna in attesa.

Una storia che Aronofsky cuce addosso alla protagonista, così come aveva fatto per "Il cigno nero" con Natalie Portman e in "The Wrestler" con Mickey Rourke, non mollandoli mai per tutta la durata del film e tallonandoli alle spalle per gran parte delle inquadrature, aiutando così l'immedesimazione con lo smarrimento della giovane madre abbandonata a sè stessa nel caos sempre più delirante e opprimente che pervade la casa.

Una casa che è quasi teatro del mondo intero, sconvolto dalle follie e gli scoppi di violenza e di ira improvvisi dei vari ospiti che diventano un'orda di Romeriana memoria pronta a distruggere e "divorare" letteralmente i protagonisti, moderni zombie ancora vivi seppur abietti nella loro esistenza ai loro impulsi più bassi, stupidi e primitivi.

Un finale che lascia aperta l'interpretazione allo spettatore, pur non essendo avaro di indizi o metafore (cristologiche e non) per aiutarne a decifrare il significato, un microcosmo di vita pulsante fin dal concepimento, alla nascita e successiva distruzione; in un ciclo che forse si può accostare all'umanità stessa in tutta la sua interezza.

Come detto sicuramente un film che divide, che può piacere o no come tutte le cose della vita e della morte, ma sicuramente non è liquidabile in quattro e quattr'otto come mero "giochino stilistico" di un regista che secondo i detrattori mira a stupire con molta apparenza e poca sostanza; anzi fa della sua apparenza la sostanza stessa di cui è fatta l'arte nella "crisi creativa" dello stesso Bardem, autore-oracolo-guru o divinità che si voglia, causa e male che piange se stessa una volta trovato ciò che bramava e desiderava.


T2: TRAINSPOTTING (Danny Boyle)
Altro seguito attesissimo del film generazionale diretto dallo stesso Boyle e uscito nei cinema nel 1996; altro seguito che ha diviso i fans tra chi lo ha amato e chi lo ha detestato.

La storia prosegue esattamente dopo vent'anni dalla fine del primo film, dopo il "tradimento" di Ewan McGregor verso i suoi amici e la fuga per una vita libera e "normale", lontano dalla delinquenza e la droga della sua natia Edimburgo.

Boyle si dimostra capace di recuperare i suoi personaggi e "aggiornarli" ai giorni nostri, invecchiati di due decadi ma tutti ancora bloccati nei loro problemi e drammi personali e familiari.

Il violento Begbie ancora in prigione, lo sballato "Spud" sull'orlo del suicidio e i Sickboy ancora bloccato in una citta' e circondato da gente che odia e disprezza profondamente.

A tutto questo fa ritorno McGregor, sopravvissuto a un attacco di cuore che lo ha fatto riflettere facendo un punto della sua vita, ancora in dubbio nell'aver fatto la cosa giusta nell'abbandonare il suo vecchio ambiente e derubando i suoi amici di infanzia per una vita che, a conti fatti, lo ha lasciato altrettanto spaesato e insoddisfatto.

Al solito perfetti i tempi di narrazione e lo stile "pop" con cui miscela le varie scene e sequenze, molto vicino allo Scorsese dei tempi d'oro ci ripropone i suoi "bravi ragazzi scozzesi" esattamente come li avevamo lasciati, soltanto piu' stanchi, disillusi e invecchiati che mai.

Un crescendo di emozioni note ai fans del film che nel finale prende una venatura thriller, portando all'estremo il personaggio di Begbie che e' sempre stato il piu' "estremo" del gruppo, pur paradossalmente essendo l'unico a non fare uso di droghe.

Perfetto nel ruolo il solito Robert Carlyle, capace di essere minaccioso e temibile con un semplice sguardo o un brontolio rabbioso nella voce, "vichingo urbano" che si sente tradito da tutto e tutti, amici e famiglia se non anche (vedi colloquio iniziale) la regina stessa e l'esercito inglese al completo.

Ma tutti nel loro insieme sono personaggi piu' complessi di quanto sembrino di primo acchito, a prima vista infatti macchiette coi ruoli riconosciuti nel gruppo come il fighetto, lo sballato o il violento; in realta' nei loro piccoli dialoghi piu' profondi e caratterizzati di quanto uno spettatore distratto possa non accorgersi.

Un ottimo secondo capitolo per i ragazzacci di Edimburgo, diretto da un regista sempre piu' consapevole dei suoi mezzi che negli ultimi anni ci ha deliziato con ottimi film come "In trance" o "Steve Jobs", senza contare i suoi vecchi successi come "28 giorni dopo" o altri film estremamente sottovalutati come "Sunshine" e "Piccoli omicidi tra amici".

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Articolo pubblicato il 07/01/2018