Cosa ci apetta? La nuova Jihad si sta riorganizzando, ed è più pericolosa che mai.

In Europa episodi tragici (e isolati), in Italia ne abbiamo qualche testimonianza, ma la Jihad è viva ovunque.

Improvvisamente è tornato in Italia e in Europa il jihadista della porta accanto. Dopo gli eventi sanguinosi di Trebes in Francia, gli arresti degli ultimi giorni a Foggia, Torino e Latina, con lo smantellamento della rete di Anis Amri -autore dell'attentato a Berlino del dicembre 2016 ucciso pochi giorni dopo dalla polizia nel milanese- hanno riportato l’attenzione sulla minaccia del terrorismo.

 

Nonostante il crollo dello Stato Islamico in Siria e in Iraq, l’ideologia del Califfato rimane viva nei suoi seguaci: anche in quelli presenti in Europa. Lo stesso ministro uscente degli interni Marco Minniti ha dichiarato che “il jihad in Italia non è mai stata così pericoloso”.

Dovevamo aspettarcelo: non sarà questa, naturalmente, la fine dei militanti e dei simpatizzanti dell’Isis. La disgregazione del Califfato in Siria e Iraq, ormai ridotto ad alcune sacche, rispetto al vasto territorio che controllava con otto milioni di abitanti, non sarà la fine dell’ideologia jihadista come la fine di Al Qaeda di Osama bin Laden non su la sconfitta in Afghanistan nel 2001.

Al Qaeda perse il suo santuario nell’Emirato dei talebani del Mullah Omar ma seppe riorganizzarsi nonostante il suo fondatore venisse uccio nel 2010 ad Abbottabad.L’organizzazione di Osama, cui è succeduto non senza tensioni e polemiche Ayman al Zawahiri, ha trovato nuova collocazione in Yemen, in Libia, Nordafrica e nell’Africa occidentale.

Movimenti e gruppi terroristici affiliati all’Isis oggi operano nel Sinai e in Egitto, dove danno filo da torcere all’esercito del generale Al Sisi, appena rieletto alla presidenza, e agli stessi israeliani che affiancano le forze del Cairo. La calamita jihadista non ha esaurito il suo potere d’attrazione neppure in Libia, dove qualche giorno fa è entrata in azione l’aviazione americana contro basi del Califfato. Formazioni affiliate e simpatizzanti dello Stato Islamico sono presenti in Nigeria con i Boko Haram, in Somalia e Kenya.

Per capire la portata ideologica dell’Isis bisogna guardare anche a Oriente del Califfato. Il progetto di Stato Islamico di Al Baghdadi, per altro ancora latitante anche se ogni tanto viene annunciata la sua morte, è stato infatti quello di estendere i confini di un neo-Califfato all’intera comunità sunnita oltre il mondo arabo e le conflittuali aree asiatiche appaiono un terreno ideale: il caso afgano, dove l’Isis è aperta concorrenza con i talebani, la guerra sempre sotto traccia tra India e Pakistan, il revival islamico presente in Caucaso e in Asia centrale, come nelle provincie meridionali della Thailandia o nel Sud filippino segnato dal contrasto tra governo e comunità musulmane; nell’arcipelago indonesiano, che è la realtà musulmana più popolosa del pianeta, come nel dramma dei Rohingya, cacciati dal Myanmar in Bangladesh.

Al di là del progetto del Califfo, ci si domanda perché e con quali strumenti il messaggio ha potuto funzionare, qual è il contesto e quale l’entità del contrasto con Al Qaeda per il primato del jihad. Non è affatto banale chiedersi cosa potrà restare del messaggio di Al Baghdadi, anche dopo la caduta di Raqqa, in paesi così distanti dalla cultura mediorientale e cosa ha spinge un giovane di Giacarta, di Dacca o del Xinjang a scegliere la spada del Califfo.

L’ascesa dello Stato Islamico in Siria e Iraq è stata bloccata ma persistono in Siria aeree in mano all’Isis mentre la sconfitta dei ribelli nella Ghoutha, alla periferia di Damasco, ha significato lo spostamento di altre centinaia di jihadisti con le loro famiglie nell’area Nord di Idlib, che oggi rappresenta una, se non la maggiore, concentrazione di jihadisti del mondo, appartenenti a sigle diverse ma contigue ad Al Qaeda e all’Isis. Senza contare che l’offensiva di Erdogan nel Kurdistan siriano è stata realizzata utilizzando, sotto il marchio di comodo del Syrian Free Army, milizie filo-turche che annoverano anche i jihadisti riciclati da Ankara in funzione anti-curda.

Il jihadismo serpeggia anche tra le file di coloro che nominalmente dovrebbero combatterlo: del resto la stessa guerra siriana anti-Assad è stata condotta ben presto facendo affluire 40mila combattenti islamici dalla frontiera turca, la famigerata “autostrada del Jihad”, aperta dalla Turchia con l’approvazione americana e i finanziamenti delle monarchie del Golfo che puntavano con questa guerra per procura ad abbattere il regime di Damasco, ovvero il maggiore alleato dell’Iran.

La Siria è stato il magnete che ha attirato anche i jihadisti europei e ora rappresenta una sorta di mito combattente, non certo vincente come fu quello dei mujaheddin afghani che cacciarono l’Arma Rossa sovietica, ma in ogni caso il simbolo di qualche cosa che poteva essere, che è stato per un breve periodo, il Califfato, e che potrebbe tornare: la sua capacità evocativa e propagandistica è ancora lontana dall’essere disinnescata.

Ce lo dicono gli stessi eventi di casa nostra. L’inchiesta di Foggia nasce dal monitoraggio della moschea Al Dawa, piccolo luogo di culto (abusivo) nei pressi della stazione che la Digos di Bari aveva iniziato a tenere sotto controllo dopo aver notato che due importanti jihadisti che aveva arrestato (incluso un foreign fighter ceceno appena tornato dalla Siria) ne erano stati assidui frequentatori. Qui l’egiziano Abdel Rahman Mohy teneva regolarmente “lezioni” per piccoli gruppi di bambini, vere e proprie sessioni di indottrinamento in cui insegnava a odiare gli infedeli, lodava il martirio ed arrivava persino a far fare il giuramento di fedeltà al Califfo a bambini di quattro anni. È naturale chiedersi quante Al Dawa, quante madrasse abusive per indottrinare i ragazzini, ci siano in Italia e in Europa.

Negli ultimi anni, in linea con le tendenze osservate i altri Paesi europei, l’Italia ha assistito all’ascesa di una scena jihadista autoctona, spesso caratterizzata da una diffusa presenza sul web per creare una rete di contatti ideologicamente affini e diffondere propaganda estremista. Inoltre, questa scena jihadista è sfuggente e ha mostrato scarsi legami con le moschee e le associazioni culturali presenti sul territorio, che in molti casi rappresentano un ambiente ostile per i militanti. Anche quando i simpatizzanti jihadisti frequentano luoghi di culto, gli imam ufficiali o riconosciuti non sono al corrente delle loro vedute estremiste.

Le nuove generazioni sono comunque il più importante obiettivo della propaganda jihadista. Lo Stato Islamico, finché ha avuto un territorio esteso, non ha esitato a coinvolgere bambini: i “cuccioli del Califfato” – come erano stati ufficialmente ribattezzati - sono stati indottrinati e addestrati e infine schierati persino nei ranghi del gruppo armato. È noto che decine di bambini hanno portato a termine operazioni suicide; altri hanno persino partecipato a esecuzioni capitali. Non è dato sapere ancora quanti minori siano stati effettivamente coinvolti nelle attività Califfato. A quelli già presenti nelle aree conquistate dall’organizzazione di Al Baghdadi, occorre aggiungere quelli giunti dall’estero, al seguito di foreign fighters. Si stima che soltanto dall’Europa occidentale siano arrivati in Siria e Iraq non meno di 800 bambini E’ interessante notare che alcuni video dell’Isis includono azioni violente eseguite da bambini. Per esempio, il filmato in arabo “Mio padre mi ha raccontato”, prodotto dalla divisione mediatica della Wilaya (Provincia) di Raqqah nel 2016, ne mostra un nucleo che si esercita con armi da fuoco e giustizia dei nemici curdi. Questo video era in possesso anche dell’imam di Foggia.

Se è vero che il progetto di indottrinamento su larga scala della Stato Islamico è crollato con la caduta del Califfato in Iraq e Siria, rimane la preoccupazione per la propaganda estremista. Il jihadista della porta accanto non è solo un lupo solitario o con pochi adepti ma può camminare accanto e dentro le nuove generazioni.


linkiesta.it

 

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Articolo pubblicato il 31/03/2018