I due volti della Jihad in Europa, tra il pericolo passato e l'attacco imminente.

Accanto alla stima scenari tranquilli c'è l'ipotesi che dietro alla diminuita minaccia apparente vi sia un clamoroso, imminente attacco.

Sul Jihad in Europa due correnti di pensiero si alternano tra gli analisti geopolitici ed entrambe contribuiscono a turbare i sonni delle intelligence occidentali.

Una corrente segue la narrativa mainstream governativa, secondo cui i risultati ottenuti in Medio Oriente contro lo Stato Islamico e le forze qaediste consentono all’Europa di poter affermare che il pericolo maggiore - cioè l’ondata di attacchi terroristici che si sono susseguiti ininterrottamente dal 2015 a oggi - è per così dire passato e che le contromisure messe in piedi (seppur a fatica) dalle polizie nazionali dell’Unione hanno sostanzialmente funzionato.

Ragione per cui oggi viene percepito un accresciuto livello di sicurezza diffusa, tale da non richiedere l’innalzamento delle misure di prevenzione e da non prevedere la proclamazione di ulteriori “stati d’emergenza” così come fece la Francia del post-Bataclan.

L’altra corrente, invece, segue quella che si può definire una “situazione pre-11 settembre” ed è tale per cui proprio la diminuita minaccia apparente può creare le condizioni favorevoli per un nuovo clamoroso attacco all’Europa.

Come a dire che proprio l’aver abbassato le difese, in ragione delle statistiche confortanti dell’ultimo anno in mano alle forze di polizia europee - meno attacchi, più arresti, intere reti smantellate, numerose espulsioni dove consentito e atti violenti efficacemente sventati - potrebbe portare a una nuova ondata di attacchi terroristici.

Il punto di contatto.

Entrambe le correnti condividono in ogni caso la certezza che i legami tra Raqqa - temporanea capitale dello Stato Islamico e centrale operativa delle azioni jihadiste perpetrate in Europa - e le cellule in sonno nel continente, siano stati recisi.

Tuttavia, se ne primo caso questo dato è sufficiente a determinare un “cessato allarme”, nella seconda ipotesi è al contrario il segnale che la vendetta non si farà attendere.

Oltre a ciò, bisogna anche sottolineare come il terrorismo non sia affatto esclusiva del fu Califfato e dei suoi adepti, ma abbia molte forme e molteplici attori: da Al Qaeda all’estremismo curdo, fino alle forse prematuramente dimenticate formazioni palestinesi e di Hezbollah.

Tutti costoro lavorano da sempre nell’ombra nella intera Unione Europea e agiscono o si attivano ciascuno in base al proprio obiettivo politico e al credo ideologico che ne alimenta speranze e volontà, trovando nella dialettica o meglio nella conflittualità delle relazioni internazionali la propria ragione d’essere e la giustificazione delle prosecuzione delle relative agende politiche di lotta.

In sintesi, da un lato è rischioso bollare come incidentale e inevitabile un attacco terroristico come quello di Carcassonne della scorsa settimana (quando un pregiudicato ha colpito in nome dell’ISIS facendo ostaggi e uccidendo innocenti), come se fosse un episodio isolato espressione di un rigurgito jihadista.

Cambio di strategia e di tecniche.

Dall’altro, appare fuorviante parlare ancora e soltanto di lupi solitari, come se dietro all’estremismo di matrice islamista non vi fossero suggeritori e basisti capaci di armare le mani di questi terroristi amatoriali.

Ma se ridimensionare è sbagliato, ancor più rischioso è focalizzare l’attenzione soltanto sulle dinamiche cui siamo abituati a guardare: salafiti ed estremisti sunniti che insistono nel creare panico con piccoli e ripetuti attacchi diretti contro la popolazione civile con mezzi di fortuna.

Da molto tempo, infatti, all’interno delle frange più estremiste e organizzate della galassia jihadista si è insinuata una pericolosissima convinzione: cioè che il livello dello scontro vada innalzato con azioni dimostrative clamorose e senza precedenti, come un attacco chimico.

La questione è silenziosamente stata messa sul tavolo delle agenzie d’intelligence occidentali da parte di infiltrati nel teatro di guerra siro-iracheno, dove sarebbero state trovate le tracce di alcuni tentativi più o meno riusciti operati da reti internazionali di terroristi per creare l’arma sporca, preludio di una “guerra chimica” da scatenare contro l’Occidente.

Per quanto improbabile appaia quest’ultimo scenario, la questione non dev’essere sottovalutata e va anzi inquadrata nelle dinamiche internazionali dove i grandi attori regionali e le superpotenze conducono una politica sempre più aggressiva (senza peraltro trovare soluzioni che non contemplino altro che la forza bruta), surriscaldando gli animi e gli odi sopiti tra gruppi di potere.

Che, all’occorrenza, potrebbero guardare con favore a una nuova fase del terrore in Europa, teatro prediletto per ogni minaccia alla pace sociale così difficilmente raggiunta nel nostro continente.

panorama.it

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Articolo pubblicato il 02/04/2018