Nei gangli del Potere.

Il ritratto di Valeria Fedeli.

Per molti del Pd, Valeria Fedeli, ministro dell’Istruzione, è una seconda Nilde Iotti, leggendaria compagna di Palmiro Togliatti. Vi dirò poi perché. Intanto, segnalo una differenza di fondo tra le due. La senatrice Fedeli è una femminista, con tutti i fru fru della categoria. Iotti, una donna che si imponeva agli uomini con i fatti.

La settimana scorsa, presentando i decreti attuativi della riforma Buona scuola, Valeri ha rimbeccato un giornalista che l’aveva chiamata ministro, con un querulo: «Riesco a dirle di chiamarmi ministra o è complicato?».

Ecco, una sciocchezzuola del genere, alla Nilde neanche sarebbe venuta in mente. Mai avrebbe sgrammaticato l’italiano per imporre le donne in politica. Lei fu la zarina, senza storpiare la lingua, con spontaneo omaggio di amici e avversari per l’autentica autorità con cui ha presieduto la Camera per tredici anni.

Fedeli è femminista da decenni.

Lo divenne quando aveva vent’anni e si agitava col movimento studentesco. Nel 2010, ebbe una recrudescenza a causa del Berlusca. Era il tempo in cui, con l’inchiesta Ruby, saltavano fuori le boccaccesche porcellate degli ultimi mesi del Cav

 

a Palazzo Chigi.

Valeria, che allora era già nei sinodali 61 anni, ebbe un soprassalto d’indignazione e fondò un gruppo neofemminista per stigmatizzare il comportamento del premier, il disdoro internazionale, l’uso mercenario del corpo femminile. Presa dalla foga, sua e di altre attempate cofondatrici, battezzò il movimento «Se non ora, quando?».

Una zappa sui piedi. Il nome, infatti, ricalca il titolo di un libro di Primo Levi sull’olocausto ebraico. Ora ditemi voi se si poteva trovare un’etichetta più inappropriata per parlare delle orge dell’arcorese? Esagerazioni simili, affiancate però a un generale equilibrio della persona, non sono rare nella senatrice.

IL CURRICULUM FARLOCCO

Conoscete la polemica – all’ indomani della nomina a ministro nel dicembre 2016 – sui suoi titoli di studio. Anche qui, aveva esagerato. Infatti, nel curriculum ufficiale si dichiarava laureata alla Scuola per assistenti sociali. Venne subito a galla che non era una laurea ma una qualifica più corriva: l’attestato di un corso triennale risalente agli anni Settanta quando ancora le lauree di tre anni erano di là da venire.

Fedeli, presa di contropiede, si proclamò in buona fede e promise di apportare le necessarie correzioni ai curricula. Io che però in queste ore sono andato a vedere il suo profilo di senatrice pd, ho trovato ancora, testuale: «diploma di laurea in Scienze sociali». In realtà, me ne impipo. Alle soglie dei 70 anni – Valeria è del 1949 – conta quello che si sa fare e come si fa. L’ho evocato solo per illustrare la sua tendenza all’enfasi.

LA CAPIGLIATURA SCONCERTANTE

Strepitosamente bombastico è anche il suo modo di tingersi i capelli. Chi l’ ha conosciuta giovane, racconta che in origine era mora. Con i primi grigi, passò a una tinta blu navy per accompagnare senza troppi contrasti l’evoluzione. Passò poi scopertamente all’artificio, con variazioni sul rosso: vermiglione, carminio, magenta, lampone. Da quando è ministro mi par di notare un debole per il rosa salmone.

Prima di spiegare com’ è diventata ministro e rivelare i fondamenti del paragone con Iotti, due parole sulla sua biografia preministeriale. Di modesta famiglia di Treviglio, in quel di Bergamo, Valeria frequentò le magistrali, il corso di specializzazione che sappiamo e, traslocata a Milano, insegnò come maestra.

Nelle aule, si appassionò ai diritti e ai soprusi dell’ambiente di lavoro, militando nella Cgil. Nel sindacato comunista fece una grossa carriera. Cooptata in Direzione nazionale (1994), fu segretario dei tessili per un decennio (2000-2010) e, contestualmente, presidente del sindacato europeo del settore.

È stata un’ attivista di buon senso e riformista. Anche nel Pci fu una moderata, ossia una migliorista, seguace di Giorgio Napolitano. Una destrorsa che andava d’accordo con i cattolici della Cisl. Era, per temperamento, espansiva e chiacchierona. Stranamente, si incapricciò però del più taciturno, rigido e stalinista dei cigiellini in circolazione, Achille Passoni. Un ragioniere milanese, di due anni più giovane, che divenne suo marito. Come coppia, parevano una trota guizzante e un baccalà. Lei molto sciura e prezzemolina, lui grigio e ferrigno come un agente di Equitalia. Lasciarono Milano per Roma a metà degli anni Ottanta, dando una svolta alle carriere.

IL MARITO MENTORE

Passoni, entrato nelle grazie di due leader Cgil molto diversi, Bruno Trentin e del successore Sergio Cofferati, uno di sinistra, l’altro più di destra, divenne il numero due di entrambi, come direttore generale della Cgil. Esercitò il potere immenso dei capi organizzativi. Fu lui che, nel 2002, curò la più grossa manifestazione di piazza del dopoguerra, al Circo Massimo: un’adunata, tipo Ventennio, con due milioni di vocianti contro il Berlusca che voleva abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Poi, non legando col capo successivo, Guglielmo Epifani, lasciò la Cgil per la politica.

Nel 2008, Walter Veltroni, come Caligola col cavallo, lo fece eleggere al Senato, candidandolo a Firenze, città di cui Passoni aveva sentito parlare nei testi scolastici di ragioneria. Finita la legislatura nel 2013 non fu riconfermato, risultando penultimo alle primarie fiorentine. Segno che, estraneo era, ed estraneo è rimasto alla città sull’Arno.

IL PASSAGGIO DI TESTIMONE

Qui, subentra il parallelo della Fedeli con la Iotti che, come tutti sanno, fu voluta quale deputato dall’ amasio Togliatti sul finire degli anni Quaranta. Anche Valeria – che intanto aveva conclusa la carriera in Cgil nel 2012 – ha usufruito più o meno dello stesso metodo. Per compensare Passoni del seggio perduto, la moglie fu paracadutata nell’ infelice collegio di Firenze ed eletta al Senato secondo la più classica staffetta familiare. Non solo. Giunta a Palazzo Madama, Fedeli è stata votata vice presidente dalle truppe cammellate del Pd. Senza precedenti: un’eletta di prima nomina, catapultata a numero due dell’assemblea. Tre anni dopo diventava addirittura ministro

NELLA PANCIA DEL POTERE

Vi chiederete: come mai tanto bendidio? Elementare: il sinistro Passoni, spostandosi a destra, già approdato a Veltroni e transitato per Bersani, si era appollaiato su Matteo Renzi, nemico dell’articolo 18, ma astro sorgente. Idem la moglie, in base al giuramento nuziale – prima parte – di seguirlo nella buona sorte. Alla spinta del fiorentino, si deve la nomina ministeriale di Valeria. Il premier Gentiloni aveva adocchiato Marco Rossi Doria, ex sottosegretario all’Istruzione dei governi Monti e Letta ma si è inchinato al capo partito. Per inciso: Passoni, perso il seggio in favore della consorte, non si è dato al tango.

È entrato, invece, nella pancia del potere renziano, come capo della segreteria tecnica di Marco Minniti, l’attuale ministro dell’ Interno, allora sottosegretario ai servizi segreti.

Ci rimase dal 2014 al 13 dicembre 2016. La data non è casuale. Ma frutto, anch’essa, di un sapiente bilanciamento tra poteri coniugali. Infatti, il giorno prima, 12 dicembre, Valeria era entrata nel governo e, ventiquattr’ore dopo, Achille usciva dal sottogoverno. Perfetto esempio di galateo istituzionale e rodaggio di coppia.

Presto, continuando così, oscureranno le più note, dai Togliatti ai Ciano.

Giancarlo Perna

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Articolo pubblicato il 13/04/2018