Visco ha torto, le banche italiane non stanno bene (e senza un Governo forte saranno guai).

Nella sua lectio magistralis pronunciata all’università di Tor Vergata, il governatore della Banca d’Italia ha fornito un’ampia e dettagliata analisi delle crisi bancarie e della vigilanza, ribadendo il suo giudizio fondamentalmente ottimista sullo stato di salute del sistema “solido nel suo complesso”. 

 

Ignazio Visco ha ripetuto che «le difficoltà non dipendono da un’azione di vigilanza lenta o disattenta, ma dalla peggiore crisi economica nella storia della nostra nazione»; senza nascondere i problemi che attendono il prossimo futuro, a cominciare dalle nuove regole europee.

 
«Voglio ribadire - ha detto il governatore - che l’indebolimento delle banche italiane e le situazioni di crisi di alcune di loro sono in massima parte conseguenza della duplice recessione nella quale la nostra economia è per lungo tempo caduta … imprese e famiglie non sono riuscite a rimborsare i finanziamenti ricevuti dalle banche. Di conseguenza tra il 2007 e il 2015 il peso dei crediti in sofferenza e degli altri crediti deteriorati sul complesso dei prestiti bancari è triplicato».

Ciò significa che prima tutto andava bene? Il 2007 è anno in cui un vero tourbillon di fusioni, acquisizioni, matrimoni eccellenti ha portato il San Paolo di Torino nelle braccia di Banca Intesa, Capitalia in Unicredit e la Banca Antonveneta nel Monte dei Paschi di Siena. 

 

Tutte operazioni complesse e costose che hanno messo sotto stress il capitale delle banche acquirenti e spesso le hanno appesantite. E’ vero che i crediti deteriorati sono esplosi con la doppia recessione, ma erano già un fardello non indifferente, si pensi in particolare al Monte dei Paschi che ancor oggi, nonostante la sua “nazionalizzazione precauzionale”, resta un colabrodo e il valore del titolo in un anno si è quasi dimezzato.

 

Facciamo altri due passi indietro e arriviamo al 2005 quando viene ingaggiata una battaglia furibonda per il controllo di alcune importanti banche, come la Bnl e la stessa Antonveneta, finite l’una alla francese Paribas e l’altra alla olandese Abn Amro che sarebbe stata travolta dalla grande crisi finanziaria del 2008. 

 

L’estate dei “furbetti del quartierino” come venne chiamata - cioè lo scontro che vide perdente da una parte Unipol dall’altra la cordata guidata da Gianpiero Fiorani - fece pagare un prezzo salato all’intero sistema e alla stessa Banca d’Italia: il governatore Antonio Fazio venne messo sotto accusa e fu costretto a dimettersi. Al suo posto fu nominato Mario Draghi.  

 

Quell’estate, al di là delle vicende politico-giudiziarie, rivelava la vulnerabilità del sistema bancario italiano, facile preda perché troppo piccolo e frastagliato per resistere ai grandi gruppi bancari stranieri, con capitali insufficienti e un business model localistico e tradizionale. Lo riconobbe lo stesso Draghi. Erano venute alla luce, insomma, le sue debolezze di fondo considerate, paradossalmente, punti di forza da una vasta opinione incapace di guardare oltre il proprio campanile.

 

Le banche italiane erano (e per lo più sono ancora) arretrate tecnologicamente, appesantite da troppi sportelli e troppi dipendenti, con una efficienza e una redditività più basse in media rispetto alle concorrenti straniere, gestite spesso in modo clientelare, zavorrate da operazioni cosiddette di sistema che si sono rivelate disastrose (non solo l’Alitalia, ma anche il crac del gruppo Ligresti tanto per fare due esempi), spiazzate dalla rivoluzione digitale già arrivata da anni nei paesi più avanzati e dal cambiamento radicale della politica monetaria avvenuto ben prima che la recessione spingesse le banche centrali ad azzerare i tassi d’interesse.

Sostanzialmente le aziende creditizie italiane facevano utili grazie alla differenza tra interessi attivi e passivi. Nel momento in cui la riduzione dei tassi a lungo termine (avvenuta all’inizio del decennio soprattutto a causa della globalizzazione) ha ristretto il margine d’intermediazione, si sono trovate in difficoltà. Inoltre, erano e sono ancor oggi appesantite da titoli di stato acquistati per sostenere “l’interesse nazionale”, non quello della banca-azienda.

 

Queste debolezze di fondo non sono state superate. Il sistema è sottoposto a una ristrutturazione paragonabile quella che ha investito già le imprese manifatturiere. Il peso dei crediti deteriorati molti dei quali inesigibili e difficilmente vendibili («le banche non disponevano di informazioni adeguate sui prestiti deteriorati e utilizzavano procedure di recupero inefficaci», ha riconosciuto Visco) s’aggiunge al fardello della inefficienza strutturale e rende le banche italiane più esposte di fronte alle nuove sfide ricordate dal governatore.
 

La prima riguarda i non performing loans. Negli ultimi due anni la consistenza, al netto delle rettifiche, è scesa a 135 miliardi, 62 in meno (circa un terzo) rispetto al picco del 2015, tuttavia il divario rispetto alla media degli altri paesi dell’Unione europea rimane ampio e l’Italia deve smaltire il fardello più rapidamente. Visco ha avvertito che «costringere gli intermediari a cedere queste attività troppo in fretta e a prezzi troppo bassi, di liquidazione, potrebbe rappresentare una fonte di instabilità e darebbe luogo a un indesiderato trasferimento di valore dalle banche agli acquirenti».

 

Su questo è in corso un braccio di ferro che non può essere lasciato alla banca centrale, la trattativa è politica non tecnica, ma il governo Gentiloni in carica solo per la normale amministrazione non ha né la forza né l’autorità per condurla.

Ciò vale anche per il negoziato sui rischi bancari. Visco sottolinea che occorre considerare anche i derivati, non solo i non performing loans. Ancor più delicata è la valutazione dei titoli di stato nei portafogli delle banche. Dopo la crisi dei debiti sovrani nel 2011, non sono più a rischio zero, ma non si può pretendere che le banche italiane se ne liberino di punto in bianco. Btp e Npl così diventano due bombe a orologeria, mentre nel frattempo non fa passi avanti significativi il completamento dell’unione bancaria.

 
Anche questa è materia dei governi. L’Italia, però, lo ripetiamo, un governo non ce l’ha ancora e, per di più, rischia di averne uno a termine. La politica, dunque, aggiunge debolezza a debolezza. Che il sistema sia “solido nel suo complesso” resta un auspicio, wishful thinking come dicono nell’anglosfera.

 

Abbiamo lasciato in fondo un’altra sfida della quale Visco non poteva parlare: l’anno prossimo Draghi conclude il suo mandato, ma i giochi per la successione si fanno di qui ai prossimi mesi, mentre si preparano le batterie per le elezioni europee del maggio 2019. 

 

E’ una operazione con tante incognite, non ultima la successione a Jean- Claude Juncker per la quale si parla con sempre maggiore insistenza di Angela Merkel. Ciò escluderebbe che Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, vada alla Bce. Al di là di un totonomine troppo anticipato, il problema è che per stare in partita l’Italia ha bisogno di un governo autorevole, rispettato, stabile. Oggi come oggi non è all’orizzonte.

 


linkiesta.it

 

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Articolo pubblicato il 18/04/2018