Lavoro: cosa ci lascia in eredità il Jobs Act di Renzi.

Numeri in chiaroscuro sul mercato del lavoro: male i giovani, meglio le donne.

L’incarico al nuovo governo gialloverde guidato dal professor Conte ha ufficialmente chiuso cinque anni di governo a stampo Democratico.
Cinque anni vissuti sulle montagne russe, con cambi di premier e rimpasti di governo, e la sensazione di aver inciso poco e male all’interno del nostro Paese.
Uno dei pacchetti di legge che maggiormente ha diviso l’opinione pubblica è stato quello riguardante la regolamentazione del mercato del lavoro, il celebre Jobs Act, la cui entrata in vigore, nel 2014, generò una serie di allarmismi ed attacchi euforici che, in gran parte, sono risultati esagerate.

Come notano vari Istituti che si occupano di analizzare le politiche governative, a quattro anni dall’entrata in vigore del Jobs Act non si sono verificati gli effetti perversi previsti da alcuni in seguito allo spacchettamento dell’articolo 18, così come non si è ottenuto un effetto volano per l’economia, essendo, di fatto, aumentati solo i contratti a tempo determinato e gli autonomi: con la scelta di non obbligare più le aziende a indicare la causale della cessazione del contratto di lavoro si è data la possibilità ad esse di prendere e utilizzare il lavoratore fino a trentasei mesi, nuovo termine oltre il quale l’azienda è obbligata ad assumere, lasciando poi a casa tale risorsa e puntando su un di un altro che, con tutta probabilità, subirà la sa stessa fine.
Un turnover programmato e micidiale per i sogni di stabilità di molti ragazzi (e non).

In campagna elettorale sia il Movimento di Di Maio che la Lega di Salvini hanno promesso grandi modifiche a questo pacchetto di leggi, a partire dalla riforma dei Centri per l’Impiego: dalla prima bozza del contratto di governo non ne esce fuori uno stravolgimento, ma è ancora presto per parlare.

Analizzando i dati diffusi dall’Istat ieri relativi al mese di aprile, si nota come siano sempre gli under 25 i più penalizzati: il tasso di disoccupazione che li coinvolge arriva al 33,2%, oltre 12 punti in più rispetto alla media europea. Ad essi vanno aggiunti gli scoraggiati, i Neet, chi, insomma, non cerca lavoro e quindi non rientra nel calcolo della disoccupazione.
Va un po’ meglio alle donne che fanno registrare un nuovo aumento del loro tasso d’occupazione (ora al 49,4%), comunque sempre molto distante da quello maschile (67,5%).
In generale la disoccupazione resta stabile all’11,2%, in calo rispetto al periodo di crisi ma superiore alla media europea (8,5%), mentre a far stropicciare gli occhi il dato sugli gli occupati, 23 milioni e 200 mila, record storico.
Analizzando meglio il dato si capisce però come esso interessi esclusivamente il lavoro autonomo (+60’000) e quello a temine (+41’000), mentre si registra un vistoso calo per gli indeterminati (-37000).

 

Continua il calo dell’inattività, ormai una costante negli ultimi mesi (ora al 34%): le persone in cerca d’occupazione sono sempre di più, anche se si tratta di un dato difficilmente interpretabile: è l’ottimismo a spingere le persone a cercare un lavoro o sono le cattive condizioni economiche che portano molti nuclei famigliari che un tempo si reggevano su un monoreddito a cercare ulteriori entrate economiche?
 

In estrema sintesi, è difficile dare un giudizio obiettivo sulle riforme renziane che hanno coinvolto il mondo del lavoro in questi ultimi anni:gli ammiratori continuano a sottolineare l’aumento innegabile dell’occupazione, i detrattori quello del precariato.
Di certo non ha dato quella scossa che in molti auspicavano, anche considerando gli incentivi e gli sgravi che per un paio d’anni hanno drogato il mercato del lavoro in tal senso.

Ora la palla passa a Di Maio che, prendendosi il dicastero delle Politiche Lavorative, oltre alle solite sghignazzate di chi sottolinea come lui non abbia mai lavorato, si assume una bella responsabilità: quella di dare una nuova prospettiva alle generazioni presenti e future.
Quelle che non possono accontentarsi del part-time, del lavoro occasionale, o sottopagato.
Quelle che si sono stancate di vedere l’estero come unica possibile alternativa per una decente realizzazione professionale.
Quelle che vorrebbero programmare il proprio futuro entro un arco temporale un po’ più esteso dei soliti tre mesi di contratto, e poi chissà.

 

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Articolo pubblicato il 01/06/2018