“Il giardino dei Finzi-Contini”: la stringente attualità del romanzo di Giorgio Bassani

Clara Letizia Riccio per Civico20News

“L’unica cosa per cui si può avvertire nostalgia sono i paradisi perduti. Gli angeli nascosti. Ciò che di meraviglioso, magari fugacemente, abbiamo incontrato.”

(Franco Battiato)

I paradisi perduti, i non-luoghi abitati dal passato, impregnati dall’acre profumo della malinconia che, maliarda, invischia chiunque ad essa si avvicini; l’accorata nostalgia del tempo ormai andato, la bruciante consapevolezza che ciò che è stato non tornerà mai più: questa la drammatica intelaiatura attorno a cui magistralmente si dispiega il romanzo di Giorgio Bassani “Il giardino dei Finzi-Contini”.

Questo giardino dall’idilliaca figura, rievocazione dell’Eden da cui l’uomo è stato allontanato e che invano tenta di riprodurre, diventa il teatro degli incontri pomeridiani di Micòl e Alberto Finzi-Contini, membri di una facoltosa famiglia ebrea, ed alcuni loro amici. In un’immagine di boccacciana memoria, il gruppo di giovani respinge tutte le brutture esterne a quel locus amoenus, isolandosi dietro gli argini di un’ideale bellezza, quella bellezza così ignara delle abiette turpitudini del mondo, così inconsapevole della sua spietata malvagità.

Il narratore B., dal nome ignoto, fin dall’infanzia, cova un immenso e platonico amore per Micòl, personaggio dai tratti enigmatici: Micòl è proustianamente irraggiungibile, trincerata dietro il suo invalicabile “muro di cinta”, incomprensibile in ogni suo aspetto. Ella fugge, scappa via dalla sua stessa realtà, si dilegua da ogni tentativo del narratore di avvicinarsi a lei, negandogli perfino un bacio e invitandolo a diradare sempre di più le sue visite a casa Finzi-Contini. Ciononostante B. perpetua il suo inconfessato legame con quella ragazza, attorniandosi di oggetti che, come un’ineffabile “epifania”, evocano la sua immagine, continuando assiduamente a frequentare la sua famiglia, dimorando nei luoghi dove prima era lei.

Eppure la lapidaria crudezza della realtà, il suo inclemente pugnale non tardano ad infrangere il fragilissimo cristallo di quella dimensione incantata: nel 1938 vengono emanate le leggi razziali contro gli ebrei, lugubre preludio di ciò che accadrà negli anni seguenti.

Nel 1942 si assiste alla tragica morte di Alberto, nel 1943 il resto della famiglia Finzi-Contini verrà catturata dai repubblichini e deportata nei lager nazisti. Solo quattordici anni dopo, nel 1957, in una casuale visita alla necropoli etrusca di Cerveteri, il pensiero del narratore vola al cimitero ebraico di Ferrara, accarezzando i suoi tristi ricordi, avviluppandosi in un’estatica contemplazione del suo passato, ormai perduto.

“Era il “nostro” vizio, questo: d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro.”

La vicenda illustrata nell’opera, di cui Vittorio De Sica realizzerà un’insigne pellicola cinematografica, si ispira alla storia vera della famiglia di Silvio Magrini, presidente della comunità ebraica di Ferrara. Egli, la moglie ed il figlio furono vittime del tragico destino che travolse la maggior parte degli ebrei negli anni dell’orrore.

Pubblicato nella seconda metà del ‘900, “Il giardino dei Finzi-Contini” è un romanzo che mirabilmente delinea l’efferata solitudine della condizione esistenziale, tralciata da un’inessenziale malinconia che galoppa incessantemente in un ammaliato visibilio di ciò che ormai fa parte della memoria.

“Non amo che le rose che non colsi; non amo che le cose che potevano essere e non sono state.”

(Guido Gozzano)

Ed è quella stessa solitudine l’irreprensibile artefice del muro. Il muro di cinta insormontabile, indiscutibile simbolo del testo, è il muro che ogni uomo innalza per proteggersi dall’altro uomo, che ogni razza issa nei confronti di un’altra razza, temendo insensatamente l’iridescente meraviglia del confronto, la camaleontica bellezza della diversità, schivando, come il peggiore dei nemici, ogni arricchente contaminazione, ogni policroma alterazione. L’uomo preferisce imprigionare se stesso tra le briglie di una svilente uniformità, cullandosi tra le onde di un oceano di squallido grigiore piuttosto che abbracciare il sublime privilegio della differenza. 

“Anche le cose muoiono. E dunque, se anche loro devono morire, tant’è, meglio lasciarle andare. C’è molto più stile, oltre tutto.”

“Il giardino dei Finzi-Contini”, dato alle stampe nel 1963, per molto tempo fu accostato alla narrativa tradizionalista e retriva, tipica di Carlo Cassola e Vasco Pratolini, bersaglio di asperrime critiche. Soltanto recentemente si è giunti alla riscoperta di questo testo grazie ad un’opportuna e lentissima rivalutazione. Scrive Antonio Spadaro di Giorgio Bassani:

“Prediligo la letteratura della frontiera, della soglia, dell'attesa. La letteratura che richiede anche una lettura dei silenzi, degli scarti”.       

 

Clara Letizia Riccio

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 23/06/2018