Louise Brooks, eterna flapper

Andrea Biscàro ci presenta la complessità della donna che è stata attrice

«Frangetta nera su occhi profondi, la donna ambigua eppure sensualissima; la maschietta emancipata degli Anni Venti che segnò un’epoca. Se la Garbo appartiene al divismo universale, che prende le distanze dai tempi, Louise Brooks rappresenta del divismo la cronaca più suggestiva, un fantasma che raccoglie le speranze, le ferite e le ingenuità degli Anni Venti. Per forza la critica più recente, che ama più i personaggi dei divi, è tutta brooksiana. Perfino con punte di vagheggiamento e di vero e proprio innamoramento retrospettivo. Il disegnatore Crepax, dando alla sua eroina di fumetti adulti, Valentina, il viso, i capelli e gli occhi misteriosi di una rediviva Louise Brooks, non ha fatto che interpretare i gusti di una famiglia intellettuale molto larga e ramificata».

Così scriveva Stefano Reggiani su La Stampa del 10 agosto 1985, riferendosi a due donne, una di carne, l’altra di carta. Ci occuperemo della prima.

Mary Louise Brooks nasce a Cherryvale (Kansas) il 14 novembre 1906. Figlia d’un avvocato, piuttosto assente, e di una pianista che le trasmette l’amore per la musica e la lettura. Mostra sin da bambina una propensione per la danza. Ha un fratello e una sorella. A 9 anni un vicino di casa abusa di lei. Anni dopo lo confesserà alla madre: «forse è stata colpa tua, lo avrai provocato», è la risposta che ottiene. La vita procede senza scossoni apparenti, ma l’animo si disinteressa delle apparenze quando ha a che fare con un trauma mai affrontato.

Frequenta la Wichita High School nel Kansas, quindi la prestigiosa Denishawn Dance Company per due stagioni (1923-’24). Sarà allontanata dalla fondatrice della compagnia: «Ti mando via dalla compagnia perché tu vuoi la vita servita su un piatto d’argento». Scritturata nel coro della rivista musicale di successo Scandals dell’impresario teatrale George White, debutta a Broadway nel ‘25 come ballerina delle Ziegfeld Follies, spettacoli ispirati alle Folies Bergère. La Paramount la nota e così firma un contratto quinquennale. Dal 1925 al 1928 recita in varie commedie, i flapper film. Flapper – secondo il Brewer's Dictionary of Phrase and Fable di Ivor H. Evans – è uno slang che descrive una ragazza appena diventata donna al pari d’un uccellino che sbatte le ali mentre sta imparando a volare. In precedenza, specie nel nord Inghilterra, si indicava un’adolescente con la treccia, il cui codino le sbatte sulla schiena mentre corre.

Gonne e capelli corti con frangetta, trucco pesante, le flappers amano il jazz. Disinibite, bevono, fumano, guidano. In sostanza, sono delle sfacciate. L’aspetto di Louise Brooks era tipico di una flapper. Non è stata lei ad “inventarla”, ma l’ha rappresentata al meglio grazie a quella commistione di magnetica sensualità e peccaminosa innocenza che solo il suo essere sapeva e sa effondere. Se Cléo de Mérode ha rappresentato la Belle Époque, Louise Brooks ha impersonato la donna degli anni Venti, del Proibizionismo, della sfida. Insomma, la donna nuova.

Ventiquattro film in tutto. Conflittuale il suo rapporto con Dreamland. Disinibita nel conquistare la sommità della collina hollywoodiana, al contempo avversa a quel «terribile posto distruttivo che a tutti gli altri sembra un paradiso meraviglioso». «Niente assomigliava di più alla schiavitù che la carriera d’una star», ma, si sa, le luci della ribalta ammaliano, catturano ed è schiavitù dorata.

Secondo il libro Il sofà del produttore – Il rito del “pedaggio sessuale” nella storia di Hollywood di Selwyn Ford, Louise Brooks passò per alcuni “sofà”. Quand’era a Ziegfeld era la protetta di un riccone che una sera la trovò a letto con lo sceneggiatore Townsend Martin: fine della pacchia e del lavoro a Ziegfeld. Townsend la presentò a Walter Wanger della Paramount. Questi «aveva appena cominciato a chiederle “Che cosa le fa pensare di avere le qualità necessarie a diventare un’attrice cinematografica?” che lei si era già spogliata e, adagiandosi con eleganza su quell’arredo essenziale che era il sofà, rispondeva: “Va bene così, tanto per cominciare?”». Andava bene. Sofà a parte, il talento c’era, ma fuori dal set la frenetica vita mondana notturna creava «delle difficoltà ai registi che non riuscivano a far recitare quella adolescente assonnata».

Due matrimoni rapidamente naufragati (nel 1926 e nel 1933), nessun figlio, svariate le relazioni attribuitele dalla stampa. Saranno poi state tutte autentiche?

Sessualmente si considera una donna libera e curiosa. Amica di Pepi Lederer (attrice, lesbica, suicida nel ’35) e di Peggy Fears (attrice bisessuale), trascorre una notte di passione con Greta Garbo. Si considera comunque eterosessuale. In tutto ciò, ricordiamo il trauma subito. Sarà lei stessa ad ammettere la sua difficoltà ad amare. «Per me, gli uomini carini, gentili, non sono abbastanza. Deve sempre esserci un elemento di dominazione nel rapporto».

Disinibita quanto introversa, notoriamente spendacciona seppur generosa quasi all’eccesso, in bilico tra introspezione, amore per la cultura e i frastornanti Anni Ruggenti che in qualche modo incarna, a un dato punto decide di allentare le catene della gabbia dorata.

A gennaio del 1929 la troviamo in Germania, diretta da Georg Wilhelm Pabst. A febbraio è negli States a girare The Canary Murder Case. Da fine giugno ai primi di agosto la ritroviamo in Germania, sempre diretta da Pabst e alla fine di agosto è in Francia nel cast di una produzione francese per la regia dall’italiano Augusto Genina. Rientra in Patria il 3 dicembre.

Mentre è a Berlino, la Paramount le chiede di tornare per doppiare se stessa in The Canary Murder Case, originariamente muto. Risponde picche. La doppierà un’altra attrice, con enorme disappunto della Major. William A. Wellman, che l’aveva già diretta, le offre il ruolo principale in Nemico pubblico (1931) con James Cagney. Rifiuta: deve raggiungere il suo amante a New York. La sua carriera passa da bollita a bruciata. Il suo “no” è una netta presa di distanza dal Sistema. Nel 1931 recita in 3 pellicole. Seguono 5 anni di astinenza, altri 4 film, un differente taglio di capelli, l’indifferenza di pubblico e critica, il ritiro definitivo nel settembre del 1938. Ha 32 anni.

Al verde, fa la ballerina nei nightclub, nel febbraio del ’40 apre una scuola di danza a Hollywood. Ad agosto torna a Wichita, dov’è cresciuta. Mette su un’altra scuola di danza e pubblica un opuscolo, The Fundamentals of Ballroom Dancing. Legge molto, prende appunti sul filosofo Henri Bergson, è attenta al mondo che la circonda. Wichita si rivela un’esperienza crudele per una concittadina-star fallita: «Devo confessare una maledizione permanente: il mio fallimento quale creatura sociale». La scuola di danza non funziona. Trova lavoro come commessa nel grande magazzino Garfields, dà una mano agli studenti della Wichita University per i loro sketch teatrali. All’inizio del ’43 si trasferisce a New York, dove lavora in radio e nella pubblicità. Sono anni difficili: «Ho scoperto che l’unica carriera ben remunerata che mi si apriva, quale trentaseienne attrice fallita, era quella della squillo… e così ho iniziato ad amoreggiare con le fantasie legate a bottigliette piene di sonniferi gialli». Seppur minata dagli insuccessi, dalle pillole e dal bere, non sprofonda. L’amore per la cultura la sostiene interiormente. I libri, dirà, «hanno fatto di me l’idiota più erudita del mondo». Una confessione semplicemente stupenda!

Fa la conoscenza del giornalista e attore Robert Benchley, che le regala una copia dei Pensieri di Pascal. Nel luglio del ’46 lavora come commessa da Saks Fifth Avenue. Si licenzia nell’aprile del ‘48. Divora libri (John Ruskin, George Bernard Shaw, Samuel Butler, Gandhi, Marcel Proust) accompagnando la lettura alla buona abitudine di prendere appunti. Si dedica con passione alla pittura. All’inizio degli anni Cinquanta si avvicina al cattolicesimo. Intrattiene rapporti epistolari con svariate persone, scrive ad amici, in qualche caso chiedendo aiuti economici. Assiduo lo scambio epistolare col conservatore cinematografico James Card di Rochester, NY. Lavora anche ad un romanzo autobiografico, che dà alle fiamme nell’aprile del ‘54. A ottobre del ‘55, Card la incontra di persona, scoprendo così l’effettivo isolamento nel quale vive a New York. La convince a trasferirsi a Rochester, cosa che farà nel febbraio del ‘56. L’amicizia con Card è salutare. Con lui visita Copenhagen, Barcellona, Madrid. In Danimarca riceve un invito al Danish Film Museum, dove viene proiettato un suo film, Beggars of Life.

Profonda l’amicizia epistolare e personale con lo scrittore Jan Wahl, le cui lettere saranno riunite nell’opera Dear Stinkpot: Letters from Louise Brooks.

Per il New York Post scrive dei gustosi profili di vecchie star. Nell’aprile del 1982 pubblica un ottimo libro di memorie, Lulu a Hollywood.

Il sipario cala definitivamente l’8 agosto 1985. Riposa all’Holy Sepulchre Cemetery di Rochester.

Su di lei ci sarebbe molto altro da aggiungere come pittrice e scrittrice, incluso il rapporto epistolare con Crepax, papà di Valentina. Così scrive nel 1976 al fumettista italiano: «hai portato la pace ai miei ultimi anni. Per 69 anni sono stata freneticamente alla ricerca di me stessa. E adesso tu mi dici che sono un “mito”, che benedizione. D’ora in poi mi disintegrerò comodamente a letto con i miei libri, sigarette, caffè, pane, formaggio e marmellata di albicocche».

Come non accennare alle sue più grandi interpretazioni, dirette dal regista austriaco Georg Wilhelm Pabst: Lulù – Il vaso di Pandora e Diario di una donna perduta (1929). Entrambi i film sono disponibili in Dvd, ed è una benedizione! Per sentire il reale valore dell’attrice, è necessario procurarsi queste due perle proibite. A poco valgono le parole per descrivere la carica sensuale che ancor oggi è in grado di trasmettere agli spettatori di entrambi i sessi attraverso questi due capolavori. Seducente, disinibita, perversa, maliziosa al limite dell’incoscienza, attrezzata di tutto punto con un ventaglio di espressioni, movenze, sorrisi e sguardi sospesi nel baratro nel nulla. Il tutto impreziosito da una fotografia che soltanto quel Cinema era in grado di donarci, quell’affascinante rapporto tra Luce e Ombra che rende immortale ogni sua inquadratura.

YouTube consente di vederla in varie pellicole e interviste. Anche in una semplice camminata lungo un marciapiede siamo in grado di apprezzare un’attrice del muto sorprendentemente dinamica, moderna, sia nelle movenze che nelle espressioni.

Louise Brooks è stata descritta in mille modi. Una columnist degli anni Venti l’ha tratteggiata per ciò che appariva e intendeva apparire: «Pelle di camelia, occhi scuri e capelli di seta nera, lucidi come una lacca cinese».

Luigi Troiani, in un articolo per La Voce di New York del 2 agosto 2015, ha scritto di lei:

«Fu di una bellezza avviluppante, perché impastata di pensiero: nella testolina graziosa di flapper funzionava un cervello di prim’ordine».

Ed è proprio per questa affascinante tra le più affascinanti peculiarità della sua femminilità, che l’eterna flapper continua ad esistere nei sensi della nostra mente.

Andrea Biscàro

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Articolo pubblicato il 05/09/2018