Nella formazione come in azienda

Le humanities autentico fattore di sviluppo

"In una situazione in continuo cambiamento (tra pochi anni saranno scomparsi alcuni dei nuovi lavori che ci sono oggi, ma se ne produrranno sperabilmente degli altri) una conoscenza specialistica non basta, va sempre integrata con un sapere generale capace di riconoscere connessioni, prospettive, invenzioni. Infine, ma è forse la cosa più importante, possono contribuire alla comprensione del processo in corso". Lo evidenziava (molto opportunamente) Luigi Ferraris, Professore ordinario di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, in un'intervista in cui illustrava finalità e caratteristiche dell'istituto "Una Scienza Nuova", che prenderà il via con l'imminente nuovo anno accademico. Una sorta di "Mit per le scienze umane", che nasce dalla consapevolezza del valore del contributo che gli umanisti possono dare all'organizzazione aziendale e alla produzione.

 

C'è bisogno, insomma, di umanisti e di humanities per lo sviluppo, non come elementi ornamentali o per dare un plus d'eticità, bensì come fattori concreti e impattanti.

 

Vale la pena, guardando quanto di cui ci stiamo occupando dal lato della vita in azienda e non da quello della formazione, l'esperienza della Modulblok di Amaro, in Carnia, specializzata nella logistica di magazzino (fa scaffali antisismici). Azienda in cui, nell'ambito di uno specifico progetto dell'Università di Trieste, un gruppo di ricercatori di discipline umanistiche ha tenuto lezioni di Storia, Letteratura, Pedagogia, Filosofia e Storia del Teatro, per un pubblico che univa il management e gli operai. Il tutto dopo il termine dell’orario di lavoro, in pieno reparto produttivo. Quasi la metà dei dipendenti ha accolto la proposta

 

L'esperienza è ben raccontata da Matteo Cornacchia nel libro “Le humanities in azienda”.

 

Bisogna, però, intendersi bene su quali umanisti e quali humanities possono/debbono essere protagonisti. Come ha chiarito Riccardo Manzotti, in un articolo su Doppiozero ("Humanities sì, cultura umanistica no"): "la cattiva cultura umanistica è quella che contrappone cultura e know how. Questo non è vero né oggi né al tempo di Brunelleschi per il quale non vi era soluzione di continuità tra i suoi studi e le leve, le pulegge, le carrucole, i progetti scritti sui cartoni ai piedi della cupola, i mattoni da far seccare".

 

Non nozionismo, ma incontro con il bello e invito alla produzione di cultura. Vale la pena rubare la conclusione a Manzotti: "ripensiamo le discipline umanistiche in un senso più contemporaneo e attivo, più umano e meno umanistico, riscoprendone il naturale lato creativo e produttivo. Le humanities hanno al centro l’uomo, la cattiva cultura umanistica solo i prodotti dall’uomo nel passato. Le prime servono, le seconde sono un lusso. Umano sì, umanistico no grazie!".

 

Tenere acceso il fuoco e non star di guardia alle ceneri, insomma, per un umanesimo che fa sviluppo (integrale).

 

Marco Margrita

 

(Immagine di copertina tratta da Doppiozero)

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 31/08/2018