In Siria è arrivata la resa dei conti: sarà un bagno di sangue (e l’Occidente sta a guardare).

I ribelli asserragliati nella zona di Idlib. Le forze di Assad (con i Russi e gli iraniani) li circondano. L’attacco sarà l’atto finale di una guerra che dura da anni, e da cui l’Occidente si è ritirato da tempo, lasciando il campo libero agli altri, e i civili in balia del conflitto.

Cadono le bombe russe su Jisr ash-Shugur, cittadina siriana della provincia di Idlib, ultima sacca di Siria rimasta in mano ai ribelli. L’interrogativo sulle bocche di tutti gli osservatori è: “sta per cominciare?”. L’offensiva del regime, sostenuto da Mosca e Teheran, contro la provincia ribelle è infatti annunciata da tempo. Falliti i tentativi di mediazione con alcune fazioni di insorti, fallito l’appello di Trump a Putin di non causare una crisi umanitaria, falliti i tentativi turchi di dissuadere Assad dallo sferrare il colpo. Non è più una questione di “se” ma di “quando”. 

 

Il regime ha portato le sue forze di terra a ridosso della sacca di Idlib nelle ultime settimane, Mosca ha avvicinato la flotta e i media russi e quelli siriani hanno già messo le mani avanti su un possibile attacco chimico, anticipando che sarà una fake-news dell’Occidente. Tutto sembra pronto insomma per un’operazione in grande stile. Perché di quello ci sarà bisogno, secondo gli analisti, per concludere di fatto la guerra civile siriana: un’ultima sanguinosa battaglia tra le forze lealiste e i gruppi ribelli che si trovano a Idlib.

 

Qui infatti sono stati riuniti dal regime, nel corso degli ultimi mesi, tutti i ribelli che sono stati smobilitati da altre aree del Paese e non hanno accettato di accettare il perdono ad Assad. Sono così mischiate fazioni “moderate”, islamisti appoggiati dalla Turchia, fanatici salafiti, uomini di Tahrir al Sham, nuovo nome della vecchia branca siriana di Al Qaeda (al Nousra). Decine di migliaia di combattenti che non hanno un luogo dove fuggire e che, almeno finora, hanno sempre rifiutato di consegnare le armi. Circondati, quel che è peggio, da centinaia di migliaia di civili, intrappolati in quello che sarà presto un teatro di guerra.

 

Ma la presenza di guerriglieri esperti, fanatici e terroristi, o l’annunciato dramma umanitario potrebbero non essere la maggiore preoccupazione per Mosca. Il Cremlino teme infatti maggiormente le ripercussioni che questo attacco potrebbe avere nei suoi rapporti con la Turchia. Ankara è la pedina di maggior pregio che Putin è riuscito a sottrarre all’Occidente nel corso della guerra siriana. Inizialmente ostile, Erdogan ha finito con l’avvicinarsi sempre più allo Zar e con l’allontanarsi specularmente sempre più dai suoi tradizionali alleati della Nato.

 

Intervenire massicciamente in un’area, la provincia di Idlib appunto, dove non solo ci sono fazioni ribelli appoggiate da Ankara ma anche forze armate turche disseminate in diversi “posti di osservazione” (nei fatti delle basi militari), espone la Russia al rischio di compromettere i risultati ottenuti finora. Anche perché, oltretutto, i civili siriani sfollati tenterebbero con ogni probabilità di riversarsi in Turchia, un Paese che già ospita tra i 3 e i 5 milioni di profughi e che è allo stremo delle sue capacità di accoglienza (e oltretutto attraversa una pericolosa crisi economica). Insomma Erdogan potrebbe reagire all’offensiva rompendo l’asse con Damasco, Mosca e Teheran, che ha gestito l’ultima fase della guerra siriana.

 

Si tratta di una decisione difficile per Ankara. Rompere l’asse la espone al rischio di perdere quel poco che era riuscita a salvare negli ultimi mesi di guerra, grazie alle trattative con Mosca: una zona cuscinetto nei territori curdi dove ospitare i rifugiati e che impedisca la nascita di un’entità curda autonoma al proprio confine meridionale, oltre al diritto di parola al tavolo dove le decisioni sul futuro della Siria vengono prese. Ma non rompere l’asse potrebbe in fin dei conti portare gli stessi risultati per il Sultano, che dopo aver sacrificato la vittoria (il rovesciamento di Assad) in Siria in cambio di qualche concessione da parte di Putin, ora se le vedrebbe sottrarre per l’incapacità del Cremlino di tenere a freno Assad. 

 

Al dittatore siriano infatti non sembra interessare particolarmente quello che Erdogan pensa dell’offensiva, considerato che non perde occasione per ribadire che le truppe turche sul suolo siriano se ne devono andare, e che le aree occupate dall’esercito di Ankara verranno liberate. Se, dovendo scegliere, Putin si dimostra più incline ad assecondare Assad che Erdogan, a quest’ultimo potrebbe anche convenire abbandonare l’asse.

 

Su queste contraddizioni poggiano le speranze di un Occidente rimasto alla finestra. Gli Stati Uniti hanno prima giocato (male) e poi abbandonato la partita siriana, mantenendo (insieme alla Francia) solo una piccola presenza militare nei territori ancora in mano ai curdi – con cui comunque il regime pare riesca a tenere aperto il canale diplomatico – e al confine con l’Iraq.

 

Ora Washington spera che l’offensiva di Idlib spezzi i legami tra Russia e Turchia, nella speranza di calamitare Ankara di nuovo nella propria area di influenza, magari concedendo qualcosa in ambito economico (e forse sulla questione curda) ma pretendendo un rientro nei ranghi della Nato. Spera poi che il dramma dei civili e, perché no, un’eventuale fiammata di ritorno del terrorismo islamico contro la Russia indeboliscano Putin a livello internazionale e interno. Ma sperare che la vittoria di oggi del tuo nemico sia abbastanza imperfetta da potersi trasformare domani in una sconfitta dà l’esatta cifra dell’attuale rilevanza occidentale in Siria: quella dello spettatore interessato.

 

linkiesta.it

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 06/09/2018