A Margine di MITO

Una riflessione dolceamara – ma piena di speranza – tra amore della musica e il nostro Paese dopo la Esther di Händel eseguita a Torino e a Milano dall’Accademia del Santo Spirito diretta da Robert King, uno dei più grandi interpreti del repertorio barocco dei nostri tempi

Dopo l’irresistibile slancio che nell’ultimo quarto del secolo appena trascorso ha portato alla riscoperta di un incredibile numero di opere e di autori sei-settecenteschi dimenticati da secoli e alla nascita e al successo di molti direttori ed ensemble di strumenti originali, negli ultimi tempi alcuni commentatori hanno messo in luce una sorta di riflusso di quello che oggi è universalmente noto come movimento filologico, che in qualche caso è stato considerato fisiologico (in fondo, non si può vivere per sempre sulla cresta dell’onda) e in altri come un inesorabile calo di interesse a favore di altri generi, come una certa fusion contemporanea venata di influssi etnici.

 

Questa disamina è stata sotto certi aspetti avvalorata dal vistoso calo delle vendite di dischi e – soprattutto in Italia – da sale da concerto non più affollate come una volta per le esibizioni delle formazioni barocche.

 

Questo fenomeno si presta però a diverse interpretazioni e non alle frettolose sentenze di certi soloni, che in alcuni casi si sono addirittura spinti a preconizzare la fine definitiva di un fenomeno che negli anni Settanta aveva dato un contributo determinante a rivitalizzare il panorama della musica classica mondiale e a rinfrescare un repertorio che aveva finito per fossilizzarsi ai soliti nomi.

Non bisogna dimenticare che in precedenza, di un autore di primo piano come Vivaldi, venivano eseguite con una certa regolarità solo una ventina di concerti, soprattutto grazie all’apporto dei Solisti Veneti e del compianto Claudio Scimone.

Da allora, grazie a direttori giovani, motivati e – almeno in un primo tempo lontani dalle seduzioni dello star system – come Christopher Hogwood, Trevor Pinnock, Nikolaus Harnoncourt, Gustav Leonhardt, William Christie, Christophe Rousset, Fabio Biondi, Rinaldo Alessandrini e molti altri abbiamo avuto la possibilità di scoprire un’infinità di capolavori dimenticati, ma – nonostante questo – rimane ancora molto, moltissimo da fare.

Anche se non è assolutamente possibile fare stime, possiamo affermare senza tema di sbagliare troppo che sugli scaffali di polverose biblioteche – tanto per usare una frase a effetto – continuano a giacere nel più completo oblio un’infinità di opere, pari (almeno) al doppio o al triplo di quelle che fino a ora sono state faticosamente riproposte al pubblico dei giorni nostri.

Tanto per fare un paio di esempi, delle oltre 18.000 sinfonie che si calcola siano state composte in Europa tra il 1740 e i primi anni del XIX secolo oggi ne vengono eseguite con una certa regolarità forse 300 (a essere generosi, contando le 104 di Haydn e le 41 di Mozart), mentre delle 100 opere teatrali di un gigante come Alessandro Scarlatti ne sono state messe in scena e/o incise sei o sette.

Insomma, una miseria. Come si sa, il nostro Paese possiede un patrimonio musicale di inestimabile valore – a mio giudizio degno di essere inserito nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO – e può contare su studiosi e interpreti di livello internazionale. Possibile che non si possa fare nulla per favorire la fruizione e la valorizzazione a livello mondiale dei nostri grandi compositori?

La risposta l’ho avuto sabato pomeriggio, di fronte all’impressionante serpente di folla che stazionava di fronte alla Chiesa di San Filippo, in paziente attesa di entrare ad ascoltare la Esther di Georg Friedrich Händel eseguita dal Coro e dall’Orchestra Barocca del Santo Spirito diretti da Robert King, uno dei più autorevoli interpreti delle opere del grande compositore di Halle oggi in circolazione.

Quasi novecento persone (alle quali il giorno successivo se ne sono aggiunte altre 550 alla replica di Milano) che hanno dimostrato in maniera inequivocabile che l’interesse nei confronti della musica antica è ancora ben vivo e con grandi potenzialità ancora da scoprire, anche in un’opera tutto sommato “minore” e che non aveva di certo l’appeal di un Messiah.

Pur non essendo paragonabile sotto il profilo dei mezzi e dell’esposizione mediatica alle principali compagini europee, l’Accademia del Santo Spirito – così come molte altre formazioni del nostro Paese – ha dimostrato con i fatti di avere a cuore un ambito culturale dal respiro realmente europeo, in grado di diventare senza particolari sforzi una parte tutt’altro che trascurabile della nostra economia.

Il settore della musica classica – non solo antica, ovviamente – può a determinate condizioni diventare una delle attrattive principali della nostra Italia, sullo stesso piano del patrimonio storico, artistico e archeologico e – perché no? – delle nostre decantate eccellenze gastronomiche.

Lo dimostrano i novecento spettatori di sabato scorso e il gran numero di ragazzi e di ragazze iscritti nei conservatori, che non chiedono di meglio che di riportare in alto la nostra musica, per oltre due secoli regina incontrastata d’Europa.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 11/09/2018