L'euro compie vent'anni: ecco come ha messo in ginocchio l'Italia.

Dal confronto tra i diciassette anni precedenti all'euro e i diciassette successivi, l'Italia ne esce martoriata

A gennaio l'euro compirà vent'anni. Tempo di festeggiamenti, per qualcuno, e tempo di bilanci. Poche settimane fa, il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, parlando all' università Sant'Anna di Pisa, ha rivendicato i successi dell'euro. E non poteva fare altrimenti, del resto. Mai chiedere all' oste se il vino è buono.

 

Allora, per cercare di capire come è andata negli ultimi vent'anni, da una prospettiva italiana, abbiamo deciso di approfondire il tema basandoci sui dati prodotti dalle principali istituzioni internazionali, raccolti e organizzati dall'imprenditore Giovanni Piero Rotundo. Dal confronto tra i diciassette anni precedenti all'euro e i diciassette successivi, l'Italia ne esce martoriata.

 

Un'Italia che proprio per le sue caratteristiche di Paese manifatturiero e votato all'export, soffre più degli altri di un cambio troppo forte. Mentre tra l' 85 e il 2001 il prodotto interno lordo italiano è cresciuto di 482 miliardi di euro (+44%), tra il 2002 e il 2017 di soli 31, uno scarno + 2% in quasi vent' anni. E l' export è testimone di quanto l'euro danneggi la nostra economia. Sempre tra l' 85 e il 2001, le esportazioni, in termini reali, sono aumentate del 136,3%. Dopo l' adozione della moneta unica, del 40,9%, meno di un terzo.

 

Le regole - L'euro fu introdotto nei mercati finanziari nel gennaio 1999, mentre entrò nei portafogli degli europei solo tre anni dopo, nel 2002. La neonata eurozona a quella data contava dodici Paesi aderenti per poi allargarsi negli anni successivi inglobando altri sette Stati. Con il Trattato di Maastricht, firmato dai governi il 7 febbraio 1992, si disegnò l' architettura istituzionale dell' euro. Le due regole cardine, il limite del 3% al deficit e il tetto del 60% del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo, furono messe nero su bianco.

 

Il bilancio - Nelle intenzioni dei padri nobili dell' Europa, l' euro doveva servire a rendere irreversibile il processo di integrazione europea, un treno inarrestabile diretto verso le "magnifiche sorti e progressive" di un luminoso futuro di pace e prosperità. Non è andata così. I Paesi ricchi sono sempre più ricchi, quelli poveri sempre più poveri.

 

Per l'Italia il bilancio dei primi vent' anni di euro è drammatico. Il pil pro capite è allo stesso livello del '99, la disoccupazione gravita da sei anni attorno all' 11%, la produzione industriale è ancora inferiore del 22% rispetto al picco del 2007. Gli altri Paesi del sud non stanno meglio. In Spagna i disoccupati sono il 17,2% , 4 milioni di persone, più del doppio del 2007. La Grecia ha perso 500mila abitanti tra il 2008 e il 2016, emigrati all' estero, mentre la disoccupazione, al 7,8% nel 2007, ora è al 21,5%. La percentuale di greci in povertà assoluta è passata dal 2,2% del 2009 al 15% del 2015. Un terzo della popolazione, 3,7 milioni di persone, è a rischio indigenza.

Persino la Francia ne è uscita con le ossa rotte: i senza lavoro sono aumentati dal 7,4% del 2007 al 9,4% dell' anno scorso.


Difficile pensare che i fautori della moneta unica ignorassero gli altissimi costi sociali cui si sarebbe andati incontro prima di coronare il sogno degli Stati Uniti d' Europa. Svariati premi Nobel, soprattutto americani, cercarono di dissuadere le cancellerie europee dall' adottare una moneta unica: non c' erano i presupposti per procedere in quella direzione. Troppo grosse le barriere culturali tra i popoli europei, troppo grandi i divari di produttività, troppo diverse le leggi nazionali sul mercato del lavoro.

 

Si decise di andare avanti lo stesso, costruendo la casa a partire dal tetto dimenticandosi delle fondamenta. E forse, rileggendo le dichiarazioni dei protagonisti politici che ci hanno portato nell' euro, ci si rende conto che essi sapevano benissimo cosa sarebbe successo.
 

I protagonisti - «Non dobbiamo sorprenderci» ha detto l' ex presidente del Consiglio ed ex Commissario europeo, Mario Monti «che l' Europa abbia bisogno di gravi crisi per fare passi avanti», passi che «sono per definizione cessioni di parte delle sovranità nazionali a un livello comunitario».
Tuttavia, i politici e i cittadini «possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico-psicologico del non farle è superiore al costo di farle perché c' è una crisi in atto». Dunque avanti fino alla morte, come recita il titolo di un libro dell' ex premier Enrico Letta, Euro sì.


Morire per Maastricht.

Più prosaico Romano Prodi, due volte presidente del Consiglio, secondo il quale «quando si mette in comune la moneta si fa un laboratorio». Resta da capire chi siano le cavie, anche se qualche sospetto ce lo abbiamo.
Quanto alle lacune della costruzione europea non può esserci sintesi migliore di quella di Giuliano Amato, giudice della Consulta e primo ministro nel '92-'93, che scomoda il Faust, l' alchimista dell' omonimo poema di Goethe che vende l' anima al diavolo: «Noi abbiamo avuto la faustiana pretesa di gestire una moneta senza metterla sotto l' ombrello di quei mezzi che sono propri di uno Stato». Non solo, ma «abbiamo addirittura stabilito dei vincoli che impedissero di aiutare chi era in difficoltà». Insomma «abbiamo fatto una moneta senza Stato». Per questo «era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi».

 

Amato evidenzia così un problema fondamentale dell' architettura dell' eurozona, e cioè il fatto di avere una banca centrale, la Bce, che non garantisce il debito pubblico dei singoli Paesi. Ciò significa che i singoli Paesi si indebitano in una valuta che non controllano, che non possono stampare, una valuta straniera, zattere in preda ai marosi dei mercati.

 

La crisi - Per capire quanto la gestione della crisi, da parte dei governi italiani e delle istituzioni europee, sia stata disastrosa, basta un dato: il reddito degli italiani tornerà al livello del 2007 soltanto nel 2022.


Quindici anni persi. Una distruzione di ricchezza senza pari nella storia italiana, superiore addirittura alla Seconda Guerra mondiale quando ci vollero dieci anni perché il pil pro capite superasse il livello del '39. Tutto questo, però, riguarda solo i paesi più fragili, non certo la Germania, l' altra metà di questa storia ventennale, l' unico grande Paese europeo ad averci guadagnato con l' euro, spesso a scapito dei suoi partner. Basti pensare ai 3mila miliardi di euro che ha accumulato dal 2002 esportando più di quanto importava.

 

Michele Zaccardi

liberoquotidiano.it

 

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Articolo pubblicato il 01/01/2019