Isis, dove sono i 40mila foreign fighters?

Il serpente cambia pelle, non natura. (Proverbio arabo).

Nel 2017 la moschea di Al Nuri, diventata simbolo dello Stato Islamico, è stata rasa al suolo e liberata Raqqa, la «capitale» del Califfato, diventata famigerata per gli orrori e le esecuzioni degli oppositori. A dicembre dello stesso anno l’Isis aveva perso il 60 per cento del territorio e l’80 per cento delle entrate, scese da 81 a 12 milioni di dollari al mese.

E in Europa il Global Terrorist Index 2018 spiega come i colpi subiti in Siria e Iraq si siano tradotti in un calo del 75 per cento delle vittime, a seguito del fallimento del 20 per cento degli attentati pianificati dall’Isis. Gli stessi Stati Uniti – come Trump aveva promesso in campagna elettorale – hanno annunciato il ritiro dei propri uomini (circa 2.000 unità, per lo più corpi speciali) dalla regione considerando di fatto la guerra all’Isis conclusa. Ma lo Stato islamico è davvero sconfitto?

Dove sono finiti i foreign fighters?

Secondo gli analisti e le fonti di intelligence, questo gruppo terroristico rappresenta ancora una minaccia per la sicurezza globale. Dei suoi 40 mila foreign fighters provenienti da 110 Paesi, una parte è tornata a casa. Per il Soufan Center, think tank statunitense fondato da Ali Soufan, ex agente dell’FBI coinvolto nelle indagini precedenti gli attentati dell’11 settembre, il numero di attacchi ispirati o diretti dallo Stato islamico continua ad aumentare, come abbiamo visto anche nel caso di Strasburgo a Natale o di Manchester a Capodanno.

«Ecco perché i rimpatriati, qualunque sia la ragione per cui tornano a casa, continueranno a rappresentare un rischio» spiega Soufan. Nel luglio 2017 la Radicalization Awareness Network (RAN) stimava che circa il 30 per cento dei 5000 miliziani provenienti dall’Unione Europea e partito per la Siria e l’Iraq avesse fatto ritorno. In alcuni Paesi, come Danimarca, Svezia e Regno Unito, il numero dei returnees (così vengono chiamati i jihadisti che rientrano) si avvicina al 50 per cento di quelli partiti. A febbraio 2018 il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che il 10 per cento dei 9.000 foreign fighters russi e delle ex repubbliche sovietiche fosse rientrato.

A Bagdad processi «rapidi»

Qualche centinaio di sostenitori dell’Isis sono morti nei raid, altri sono stati catturati. Alcuni sono finiti nelle mani delle forze irachene. Da considerare quanto Isis abbia attecchito in Iraq, riuscendo perfino a mettere a libro paga e corrompere molti giudici. Lo scorso anno a Bagdad si sono tenuti qualche centinaio di processi, spesso durati pochi minuti, con 300 sentenze di condanne a morte e 185 ergastoli, anche in assenza di prove certe.

Tra questi ultimi ci sono un centinaio donne, sia irachene che straniere, accusate – senza prove – di sostenere lo Stato Islamico. Poi c’è il dramma dei bambini, molti dei quali esposti al lavaggio del cervello e ai traumi della lotta armata. Alcuni di loro sono detenuti con le madri in Iraq e in Siria. Poche settimane fa solo Belgio e Germania hanno fatto qualche passo per i rimpatri.

Moneta di scambio

400 jihadisti sono invece rinchiusi nelle carceri curde delle SDF, le forze che hanno combattuto Isis nel nord della Siria e che hanno contribuito alla sua sconfitta sul campo. Non avendo però a disposizione un apparato statale e giuridico, i curdi, nel tentativo di usare i prigionieri come moneta di scambio, hanno più volte fatto pressione sui governi europei affinché si prendessero i loro cittadini per processarli in patria.

È il caso degli inglesi Alexanda Kotey ed El Shafee Elshik, membri della cellula dell’Isis detta «Jihadi Beatles», ritenuti colpevoli di aver detenuto e decapitato, tra gli altri, i due volontari britannici David Haines e Alan Henning, e di aver rapito il cooperante italo svizzero Federico Motka. Kotey ed Elshik si trovano ancora nel nord della Siria senza che Londra, né altri Paesi, abbiano chiesto l’estradizione. In un vertice a Roma a febbraio 2018, il capo del Pentagono James Mattis (fresco di dimissioni perché in contrasto con la decisione di Trump di ritirarsi dalla Siria) ha chiesto ai governi europei di processare i foreign fighters.

Nulla si è mosso: nei tribunali europei occorre produrre prove imbastire processi, e vanno recuperate in scenari come quello iracheno e siriano. Troppo complesso e costoso. E ora – tanto più dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato il loro disimpegno – il rischio che i curdi liberino questi miliziani anche a fronte del pagamento di un riscatto è alto. Altrettanto elevata la possibilità che le intelligence europee ne perdano le tracce.

Per quanto i 125 foreign fighters italiani, 40 sono considerati deceduti, altri sono stati catturati in Siria. Tra loro la 22enne padovana Meriem Rehaily, partita nel 2016 e ancora detenuta dai curdi. Molti anche i «dispersi». Tra loro Maria Giulia Sergio, condannata in contumacia a nove anni, che al Corriere della Sera nel luglio 2015 dichiarava di voler decapitare gli infedeli in nome di Allah.

Pericolo di fuga e propaganda

I problemi dunque sono due. Il primo è il rischio di fuga di soggetti pericolosi e di un loro possibile ritorno in Europa. Il secondo riguarda l’influenza della narrativa jihadista sui giovani. Dopo l’11 settembre, 650 sospettati jihadisti vennero rinchiusi nella prigione statunitense di Guantanámo. Le immagini degli abusi fecero il giro del mondo diventando una potente arma di reclutamento per le nuove leve del jihadismo, tanto da portare Obama a promettere nel 2009 la chiusura della prigione in tempi brevi.

Poi è arrivato Trump e ne ha prolungato le attività di altri 25 anni. Lo stesso Al Baghdadi ha deciso di creare Isis proprio mentre si trovava in una prigione statunitense in Iraq, a Camp Buqqa, nel 2004. «Non a caso le prigioni statunitensi sono state definite “le Harvard del terrorismo”, perché è nelle celle che gli estremisti si radicalizzano e incontrano altri estremisti» sottolinea Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism della George Washington University.

Tutte le Ong per i diritti umani del pianeta, a partire dalla più autorevole Human Rights Watch, avvertono: «assicurare ai jihadisti un giusto processo e uno stato di detenzione rispettoso dei diritti umani non è solo una questione giuridica. Ma anche di sicurezza e tenuta per le democrazie di tutto il mondo».

Fonte: Il Corriere della Sera.

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Articolo pubblicato il 17/01/2019