Il rischio delle “microplastiche” sull’uomo attraverso l’alimentazione

Un argomento discusso al Festival del Giornalismo Alimentare del 21-23 febbraio 2019 a Torino

È consuetudine del Festival del Giornalismo Alimentare, tenutosi presso Torino Incontra – Via Nino Costa, 8 dal 21 al 23 febbraio 2019, trattare gli argomenti più svariati e di attualità scottante, dove, senza ombra di dubbio, faceva bella mostra il titolo: “Il caso del 2019: le microplastiche negli alimenti”.

Intanto le “microplastiche” che cosa sono?

Per semplificazione possiamo dire che le “microplastiche” (e pertanto anche le “nanoplastiche) derivano dalla degradazione dei polimeri plastici (che formano gli oggetti che quotidianamente utilizziamo), attraverso la luce ultravioletta, l’azione meccanica, chimica, batteriologica, del calore, ecc.

Infatti la quasi totalità delle particelle ritrovate nei diversi ambienti  derivano dai prodotti utilizzati dall’uomo come bottiglie, bicchieri, piatti e posate di plastica, reti da pesca, pellicole e contenitori di cibo, ecc.

Discorso a parte resta quello degli oggetti plastici di maggiori dimensioni (buste, scatole, frammenti di imballaggi e di arredi, ecc.) che si accumulano in aree estesissime negli oceani, nei mari, sui litorali costieri, ecc. e che minacciano la sopravvivenza di gran parte degli organismi marini per il rischio d’ingestione.

Oltre che per dimensione (da circa 5 millimetri a 330 micrometri), le “microplastiche” possono essere classificate anche in base al loro processo di "cessione ambientale" e alla loro composizione chimica.

Le “microplastiche” si distinguono in primarie e secondarie. Con il termine primarie si intendono le ”microplastiche” di dimensioni microscopiche e che derivano tipicamente dai prodotti della cosmesi (una delle principali fonti di microplastiche), dalla sabbiatura e dall’industria farmaceutica.

Sono ancora considerate “microplastiche primarie” i pellets di plastica vergine con diametro tra 2 e 5 millimetri.

Per “microplastiche secondarie” s’intendono invece quei piccoli frammenti di plastica che derivano dalla degradazione dei rifiuti di plastica più grandi, sia marini sia terrestri.

Per quanto riguarda la composizione chimica, questa è rappresentata, nella stragrande maggioranze dei casi, dai Polimeri Termoplastici e Termoindurenti (i cui monomeri sono: il polietilene,  il polipropilene, il polistirene, il polietilene tereftalato, il polivinilcloruro, il poliammide, le resine fenoliche, poliuretaniche, ecc.).

Come si producono e si diffondono le microplastiche nell’ambiente?

Ogni individuo, senza saperlo e senza rendersene conto, produce ogni giorno grandi quantità di particelle plastiche che sono a tutti gli effetti delle “microplastiche”.

Per esempio, molte di queste derivano direttamente dagli abiti che indossiamo, perché contengono notevoli percentuali di poliestere e di altre fibre sintetiche che, liberandosi dai nostri stessi indumenti, si disperdono inevitabilmente nell’ambiente circostante.

Infatti lavare una sola maglietta sintetica in lavatrice, confermano sperimentazioni recenti, può produrre all’incirca 1.900 particelle considerate autentiche “microplastiche”.

Tuttavia sono tantissime le attività e pratiche umane che rilasciano nell'ambiente quantitativi, piuttosto elevati, di queste "particelle-microplastiche". Tra questi i cosmetici (esempio: gli eye-liner, i detergenti esfolianti facciali), l'uso di alcuni shampoo e saponi, delle creme solari, del dentifricio e dello spazzolino.

In realtà questo grave problema è noto e discusso da tempo, ma in questa occasione si è tentato di fornire gli ultimi aggiornamenti in merito.

La relazione della ricercatrice americana Sherri Mason, del Penn State Beherend, ha fornito una panoramica preoccupante per i dati presentati. In pratica le “microplastiche” ci circondano e ci assediano in tutti gli ambienti e sono presenti nelle acque dei mari, dei fiumi, delle falde, negli acquedotti e nelle bottiglie per uso alimentare, nei vegetali, negli animali, negli alimenti e pertanto inevitabilmente nell’uomo.

Il problema è tremendamente complesso e la scienza non è ancora in grado di offrire soluzioni tecnico-scientifiche per arrivare a un controllo quali-quantitativo di queste immissioni nell’ambiente stesso.

L’intervento del Prof. Giorgio Gilli dell’Università di Torino (già Professore Ordinario di Igiene – Università degli Studi di Torino) si è focalizzato sui meccanismi fisio-biologici di introduzione-assorbimento delle “microplastiche” (per endocitosi, per processo para-cellulare, ecc.) negli organismi animali e nell’uomo, evidenziando possibili problematiche di accumulo che potrebbero scatenare fenomeni di tossicità, d’infiammazione e di reazioni immunitarie, creando i presupposti per nuove patologie.

Particolare attenzione è da riservare alle “nanoplastiche” che, per le particolari dimensioni (da 0,001 a 0,1 micrometri), risulterebbero più facilmente assorbibili dagli organismi e pertanto più pericolose.

Inoltre è stato evidenziato di non sottovalutare la possibilità che le “microplastiche”, per la loro peculiare e varia struttura chimico-spaziale, possano ospitare e veicolare micro-organismi, quali batteri e altri germi patogeni, che potrebbero, attraverso questo veicolo, rientrare nella catena alimentare costituita dagli organismi viventi degli oceani, dei mari, dei fiumi e inquinare anche le falde acquifere.

In sintesi la relazione del Prof. Giorgio Gilli è stata una pregevole ed efficace esposizione sintetico-didattica, che ha anche espresso la sollecitazione urgente ad accelerare studi in merito, per garantire maggiori conoscenze scientifico-diagnostiche al fine della prevenzione e della sicurezza della salute pubblica.

Completava la sessione l’intervento della Dr. ssa Lorenza Meucci – Responsabile Centro Ricerche SMAT- che, partendo dalla normativa della legge vigente, evidenziava la presenza oggettiva delle “microplastiche” nell’ambiente che ci circonda e la conferma che anche nelle acque potabili se ne riscontrasse inevitabilmente la loro presenza.

In ogni caso le analisi hanno sempre rilevato che il livello delle “microplastiche” è in concentrazione minore nell’acqua del rubinetto, rispetto a quella imbottigliata nel contenitore di plastica.

Tuttavia l’intervento della suddetta terminava con la sollecitazione alle autorità scientifiche competenti (internazionali, europee e nazionali) di elaborare nuovi metodi analitici chimico-fisici più sensibili e specifici degli attuali per le acque potabili.

Pertanto, volendo fare il punto della situazione emerso da questa interessante sessione del Festival del Giornalismo Alimentare, si profila purtroppo ancora un quadro di grande incertezza, per quanto riguarda la valutazione del problema in termini medico-epidemiologici, del controllo analitico dell’inquinante “microplastiche-nanoplastiche”  e della necessità di una normativa moderna aggiornata e coerente alle nuove conoscenze, che la ricerca scientifica più avanzata sta mettendo a disposizione.

Molti sono i sospetti che le “microplastiche” possano essere potenziali cause di patologie da “accumulo”, ma per ora mancano ancora prove biologico-cliniche certe e il problema resta aperto.

Per il lettore interessato a questa complessa problematica, al fine di un maggiore approfondimento, si consiglia di visionare i seguenti link:

 

https://marevivo.it/files/160505/microplastiche_doc_gruppo_ardizzone_def.pdf

https://www.ohga.it/microplastiche-cosa-sono-dove-si-trovano-e-quante-ne-ingerisci/

 

L’immagine di copertina proviene da: Google-www.rinnovabili.it; microplastiche-dentifricio da: Google-rivista natura.com; acqua in bottiglia da: Google-ANSA.it

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Articolo pubblicato il 26/02/2019