Il funzionamento dell’inconscio secondo Jung. (seconda ed ultima parte).
Annie Parker Siam Legacy SHE

Carl Gustav Jung credeva di disporre di una chiave importante con la quale poter aprire delle porte rimaste chiuse da molto tempo. Egli rese delle antiche verità accessibili all’uomo moderno, raccogliendo e confrontando dati empirici che aveva raccolto a partire da svariate fonti.

Estrapolandoli dal loro sfondo metafisico, egli riuscì a spiegare queste verità in una lingua specifica che tutto il mondo poteva comprendere facilmente: quella della psicologia del profondo. Col rischio di ridurre tutto a un punto di vista psicologico, egli aveva l’intenzione segreta di infrangere la visione ristretta e ottusa dell’uomo moderno e, soprattutto, di rendere accessibili al grande pubblico libri spirituali quali Il libro tibetano della grande Liberazione, Il segreto del Fiore d’Oro, e altri trattati alchemici medievali come Aurora Consurgens e Rosarium Philosophorum.

In maniera oggettiva e neutra, quasi come un profano, egli riuscì, senza essere sospettato di essere lui stesso un propagandista o un sostenitore povero di spirito, a rivalutare l’oroscopo astrologico, l’utilizzo delle carte dei Tarocchi e l’I-Ching.

Con una mentalità totalmente aperta e imparziale, Jung fu praticamente la figura centrale nel corso delle conferenze Eranos ad Ascona, durante le quali si riunirono degli studiosi controversi del suo tempo come James Hillman, Henry Corbin, Gilles Quispel (l’esperto gnostico celebrato recentemente a Amsterdam) e altri provenienti da diverse discipline.

Inoltre, Jung cercò delle soluzioni per curare l’uomo occidentale e la sua cultura. In qualità di vero medico dell’anima, egli voleva guarire dalle sue ferite Amphortas, il re della leggenda del Graal. Nella malattia di questo re pescatore, egli riconosceva quella di suo padre, il pastore della parrocchia che soffriva seriamente per i suoi dubbi religiosi e pareva non poter conoscere la grazia dell’esperienza vivente dello Spirito Santo, che Jung riteneva di aver raggiunto in maniera molto diretta e personale.

D’altro canto, egli poggiò notevolmente la sua ispirazione sul simbolismo alchemico, e questo ben prima che l’avvento della psicologia del profondo venisse a compensare il carattere esclusivo della fede cristiana. Così, ad esempio, gli alchimisti avevano dei simboli per rappresentare il loro salvatore: la pietra filosofale che poteva trasformare il piombo in oro.

Secondo Jung, gli alchimisti avevano anche scoperto dei nuovi modi di tramandare l’incarnazione divina, non solamente in una figura storica unica in qualità di figlio perfetto di Dio, ma anche nella materia imperfetta, nella psiche di ogni essere umano; non solamente in una fede collettiva, ma anche in un’autorealizzazione effettiva.

Così, molto tempo dopo gli gnostici, essi aprirono la via a una comprensione nuova delle formulazioni dogmatiche, in particolare quelle della Trinità, della crocifissione e della resurrezione, così come delle pratiche rituali come la celebrazione della messa e il battesimo.

Nel corso dell’applicazione dei suoi concetti ai simboli alchemici, si produsse qualcosa di molto strano. Jung vide in questo non solamente la conferma della sua teoria, ma si sentì anche obbligato a modificare il contenuto delle sue nozioni, ad approfondirle e a ricollocarle in una prospettiva molto più larga.

Siccome egli voleva comprendere simboli quali il lapis philosophorum, il corpus glorificationis o corpo di diamante, l’archeus di Paracelso, la scintillia o scintilla di luce dei Manichei, il consolamentum dei Catari o – come meglio definito nel suo opus magnum Mysterium Conjunctionisil matrimonio alchemico dei manifesti rosacrociani. Jung giunse allora alle frontiere della scienza psicologica, come confermò in una delle Tavistock lectures che tenne a Londra nel 1935 all’Istituto di Psicologia Medica, davanti a un pubblico di medici e psicoterapeuti. «Più si penetra nei problemi fondamentali della psicologia, più ci si avvicina a idee che sono cariche di preconcetti filosofici, religiosi e morali. È per questo che si devono trattare certe cose con la più grande prudenza». È così che Jung si espresse nella sua opera Fondamenti della psicologia analitica.

Egli a lungo sostenne che questo non riguardava solo un processo puramente psicologico. Sapendo benissimo quali ne erano le implicazioni spirituali o metafisiche, Jung si rifiutò di dire altro a questo riguardo. Egli voleva continuare ad essere considerato come l’empirista degli inizi della sua carriera: «First facts, then theories» (Prima i fatti, poi le teorie).

Tuttavia, il suo agnosticismo non era quello di Darwin o di Freud. Assomigliava molto di più al non conoscere mistico nell’ambito della Nube della non-conoscenza o del Silenzio ineffabile degli gnostici, dell’Ain Soph dei cabalisti ebrei, o dell’Ungrund di Jacob Böhme.

In occasione di un intervista trasmessa nel 1959 dalla BBC, quando John Freeman gli domandò se fosse credente, Jung scosse la testa e poi disse: «Io non credo… Io so».

La sua risposta tuttavia suonava ancora molto ambigua e nei suoi Ultimi Pensieri scrisse: «In assenza di fatti empirici, io non so né conosco il tipo di forme d’essere in genere designate come “spirituali”. Quanto alla scienza, poco importa ciò che credo in merito ad essa. Devo accontentarmi della mia ignoranza. (…) Tutta la conoscenza, tutto ciò che è conosciuto è psichico in sé; noi siamo disperatamente prigionieri in un mondo puramente psichico. Nondimeno, noi abbiamo sufficienti motivi per supporre che dietro questo velo esista l’oggetto assoluto incompreso, che agisce in noi e ci influenza, anche in quei casi, in particolare nei fenomeni psichici, dove nessun fatto reale può essere stabilito».

La questione che si pone è sapere se Jung, al limitare della terra promessa che voleva esplorare, non soffrisse di una forma di agorafobia, spaventato com’era dallo spazio vuoto dell’infinito. Nonostante questo, egli tentò di ridefinire i suoi concetti di base, soprattutto dopo la crisi cardiaca e l’esperienza di premorte del 1944.

In questo modo, egli indicò molto chiaramente che ciò che chiamava “archetipo” non poteva essere che “l’impronta” psichica di un “archetipo in sé”, an sich, come lo definiva Kant. In un intervista con Wolfgang Pauli sul tema della fisica quantistica, egli inventò il nuovo termine di “sincronicità” per descrivere come dei fenomeni nella psiche potevano accompagnarsi in maniera logica ad avvenimenti nel mondo fisico, e questo senza alcun legame di causalità. In seguito, egli parlò d’un tratto di “psicoide”, in un tentativo di riunire la materia e lo spirito nel dominio dell’anima.

Egli speculò sul fatto che il Sé forse non era unicamente il risultato dell’associazione o della totalità del conscio e dell’inconscio, ma che doveva essere visto come una matrice preesistente o come il motore dell’individuazione. Più tardi, nel suo libro Risposta a Giobbe, egli tentò di spiegare il fenomeno dell’individuazione globale dell’umanità in termini di autorealizzazione del Dio dell’Antico Testamento.

Di conseguenza, la domanda è sapere se Jung ha in definitiva psicologizzato dei concetti comunque metafisici e teologici, o al contrario, ha semplicemente tentato di teologizzare il suo personale sistema psicologico mescolando le cose. Il fatto è che al termine della sua vita, Jung ha tentato di depurare la sua visione dai limiti del suo vecchio quadro di pensiero scientifico, cosa che osserviamo nel suo libro postumo Ricordi, Sogni, Riflessioni.

«La fisica è tacitamente convinta che un oggetto trascendente non psichico esista. Nondimeno, essa sa anche quanto sia difficile conoscere la vera natura di questo oggetto, in particolare là dove il nostro organo di percezione è insufficiente o addirittura mancante, e là dove forme di pensiero appropriate non esistono e dunque devono prima essere create». (Memorie)

Possiamo dare per certo che questo organo di percezione si stia sviluppando e che questa forma di pensiero esista già? Forse è arrivato il momento di collegare la base empirica dei concetti junghiani con delle categorie metapsicologiche e/o metafisiche reali, e considerarle come un riflesso empirico di una realtà meta-empirica, somigliante al riflesso della luce sulla superficie dell’acqua.

È in questo ordine di idee che Etienne Perrot, il celebre studioso francese e traduttore dell’opera di Jung, definisce il cammino junghiano attraverso l’inconscio come “il percorso dell’acqua”. Jung ci invita a lasciare l’appoggio di un pensiero troppo legato alla terra. Ci invita a scendere e ad allentare la presa della coscienza-io. Egli ha portato a fusione delle opinioni congelate e cristallizzate rendendole flessibili e fluide, e ci ha condotto su mari immensi sui cui è possibile navigare nonostante l’io cosciente sia sempre minacciato.

Senza il sostegno di una stella spirituale fissa, noi corriamo il grande pericolo di annegare nelle profonde acque psichiche. La psicologia analitica ci conduce sempre alla frontiera della psicosi, lungo uno stato di sogno inferiore simile a una trance ipnotica o all’influsso degli stupefacenti. In questa situazione, i contrasti sembrano vaghi e sbiaditi, ma nell’insieme essi non sono risolti. In fin dei conti, il cammino sommerso deve essere abbandonato e trasceso per mezzo di un fuoco onnipresente e divorante, un fuoco che vuole condurci verso domini di luce nuovi e vibranti.

Al fine di convertire tutte queste forze in una luce sovra-luminosa, occorre essere elevati da uno spirito sovra-cosciente e transpersonale. La coscienza trascendente si trova dissimulata nelle profondità dell’inconscio, come una pepita d’oro, o il gioiello nel loto, ma essa è in realtà originaria di una natura superiore.

Non bisogna solamente abbandonare il nostro ego cosciente a questo campo di forze più elevato, ma offrirgli tutta la nostra devozione personale, benché relativa. Al fine di non perdersi sulla lunga strada della crescita psicologica, non basta imparare a distinguere il conscio dall’inconscio, ma si tratta anche di separare la natura oscura dialettica, totalmente empirica, dal mondo della luce imperitura dell’assoluto.

Tale è il senso ermetico reale del solve et coagula dell’alchimia, la separazione e la riunificazione dei contrari. Benché nel suo libro Aion Jung avesse annunciato l’arrivo di una nuova era, lui stesso era ancora un figlio del suo tempo, figlio del periodo dei Pesci. Egli anelava con impazienza a nuovi orizzonti, ma non gli venne concesso di attraversare la frontiera che la scienza del suo tempo aveva stabilito.

Alla fine della sua vita, egli ancora dichiarava: «Non mi immagino altrimenti che con i miei pensieri sul senso e il mito dell’uomo, tutto è stato detto su questo argomento, ma io credo che questo sia ciò che, alla fine della nostra era dei Pesci, può essere detto e addirittura deve essere detto, riguardo al prossimo Eone che prenderà forma umana». (Memorie)

Arrivati agli inizi dell’era dell’Acquario, noi non disponiamo solo della possibilità di continuare il lavoro di Jung e portarlo a buon fine, anzi questo deve costituire per noi un dovere sacro. Non solamente per diventare individui integrati su un piano orizzontale e naturale – cosa che evidentemente è una transizione necessaria – ma anche, nel senso più reale del termine, per diventare degli uomini divini, persone dello spirito, in modo verticale e soprannaturale.

Ecco perché il Sé unificato non può esaurirsi alla periferia della limitata psiche personale, ma deve essere scritto con la lettera maiuscola. È la scintilla di luce celeste in noi, originaria di una realtà unica indivisa. Esso non può restare confinato in una realtà intrapsichica chiusa, ma deve essere compreso nel suo senso più ampio come una realtà aperta, sociale, metafisica, cosmologica e trascendentale, in breve, come un Essere Nuovo. È il nostro legame vivente con l’unità onnipresente della vita, ciò che ci collega a tutti gli esseri e ci riunisce nell’unica sorgente divina.

Il Sé non è certamente solo il prodotto di uno sviluppo biologico o psicologico. Al fine di essere in grado di raggiungere le sue altezze, è necessario elevarsi per mezzo di un cammino a spirale fino a un piano evolutivo superiore, nell’ambito di una rigenerazione integrale, una trasformazione totale o trasfigurazione, raggiungendo un livello multidimensionale, molto al di là del tempo e dello spazio.

Non per mezzo di una regressione biografica o storica, né per mezzo di un ritorno a un lontano passato dimenticato, nella speranza di ripristinare ciò che è andato storto nel corso di uno sviluppo a senso unico o nel progresso della società occidentale, bensì per mezzo di una trasposizione totale in uno stato d’essere del tutto nuovo.

Cessando di essere dei “nati secondo la natura” – come recita il testo ermetico fondamentale – per diventare dei figli delle stelle, dei cittadini dell’infinito e coautori di una creazione universale. Da questo punto di vista, il processo di individuazione menzionato da Jung è un’iniziativa importante nell’ambito di ciò che si potrebbe chiamare il salto quantico dall’esistenza empirica all’essere assoluto, dalla natura inferiore verso la natura superiore.

Si trattava dello stato più intimo dell’uomo dell’inizio dei tempi, così come gli Elohim, gli dèi creatori, lo concepirono a loro immagine e somiglianza, nella loro forza e in funzione del loro piano.

E questo può essere e sarà nuovamente lo stadio ultimo dell’uomo spirituale, altresì chiamato Adam Kadmon, Uomo-Gesù. Questa immagine del Sé, l’Imago Dei, come Jung sovente e volentieri la chiamava, benché si riferisca all’archetipo, non è nient’altro che la soggettività assoluta, l’onnicoscienza eterna. Essa non è niente di meno dell’occhio di Dio, attraverso il quale Egli guarda il Tutto.

Nondimeno, visto da noi singoli individui, questa non è altro che una non coscienza del Tutto, che mai sarà totalmente integrata. Ecco perché viene anche detto: «Colui che vuole Dio morirà». Per pervenire alla coscienza del Tutto, «non parziale o come (riflesso) in uno specchio, ma faccia a faccia» così come Paolo ne ebbe visione, occorre vincere definitivamente le forze psichiche inconsce e superarle tutte. Al fine di realizzare la coscienza assoluta del Sé, sono richieste la morte del vecchio uomo psichico e la nascita dell’uomo nuovo pneumatico, come affermavano gli antichi gnostici.

È un sapere che è parimenti nascosto nelle parole della prima Lettera di Paolo ai Corinzi e che è inciso sulla pietra funebre di Jung nel cimitero di Kûssnacht: Primus homo de terra terrenus, secundus homo de caelo caelestis, Il primo uomo è della terra, terrestre, il secondo del cielo, celeste. (1 Cor 15:47)

Esistono dunque sufficienti ragioni per chiamare Jung il messaggero della nuova era. Egli ha espresso la saggezza del domani in una modalità accettabile dalla scienza del suo tempo. Tocca ora a noi fare un passo in più, un passo che Jung avrebbe senza dubbio compiuto se avesse vissuto nella nostra epoca, trasferendo questa “saggezza eterna” a un tempo nuovo, un tempo nel quale una nuova scienza si erge: una metascienza, olistica, autenticamente spirituale.

È il ritorno della Gnosi autentica, una Gnosi nella sua manifestazione attuale. Senza nessun altro scopo se non quello di liberare l’uomo da tutte le sue resistenze e divisioni del passato, renderlo cosciente e aprire il suo spirito, qui e ora, per l’eternità. La grandezza dello spirito umano è l’infinito del suo Sé.

 

Articolo tratto dalla rivista Pentagramma - Edizioni Lectorium Rosicrucianum

Scuola Internazionale della Rosacroce d'Oro

https://www.lectoriumrosicrucianum.it/

 

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Articolo pubblicato il 03/03/2019