Appendino tra aumento delle tasse e e scollamento dalla realtà

La stangata nel nuovo bilancio comunale sarà democratica, nel senso che non risparmierà nessuno. L’esito sarà una contrarietà diffusa, che metterà il M5S in una posizione difficile in termini di consenso ad un anno dal voto

È notizia di Martedì che nel 2020 sui Torinesi si abbatterà un significativo aumento delle tasse locali. Sotto tiro la proprietà della casa, il servizio di raccolta rifiuti, l’occupazione del suolo pubblico e, non ultima, la gabella per l’ingresso in centro. Bastano pochi rudimenti di contabilità pubblica per spiegare perché la sostenibilità del bilancio cittadino abbia bisogno di tali iniziative.

Torino è la città più indebitata d’Italia — per investimenti, ma i mutui sono da pagare lo stesso — e i tagli dei trasferimenti del governo agli enti locali sono ormai impietosi. Il principio in base al quale Palazzo Chigi scrive la legge finanziaria è il medesimo sotto tutti i governi: scaricare su municipi e regioni le miserie del bilancio nazionale. Dunque se l’obiettivo della Giunta Appendino è produrre un bilancio di previsione per il 2020, è razionale e persino responsabile che possa optare per un inasprimento della pressione fiscale. La responsabilità istituzionale non contempla finanza creativa. Non meno legittima sarà, d’altra parte, la prevedibile reazione negativa dei cittadini che, presumibilmente, bocceranno questa politica di bilancio.

 

La stangata, per come è presentata, sarà democratica, nel senso che non risparmierà nessuno. L’esito sarà una contrarietà diffusa, che metterà il M5S in una posizione difficile in termini di consenso ad un anno dal voto. La contrarietà dei cittadini alle tasse è atavica. Chi tassa è inviso.

Ciò che però meglio spiega la situazione attuale di Appendino e della maggioranza in Sala Rossa è il modo di intendere la comunicazione che ha anticipato e accompagnato le sue politiche e le sue non-politiche. Sin dalla campagna elettorale che l’ha vista vincitrice, Appendino e il M5S hanno disconosciuto ogni relazione necessaria — eppure ineludibile — tra la realtà e la sua rappresentazione. Tra materiale e immaginario. Soprattutto in quella fase, la propaganda dei 5 Stelle si è nutrita di un illusorio potere maldestramente attribuito alla comunicazione: quello di creare la realtà, di manipolarla, forse pensando che semplicemente descriverla non fosse abbastanza per battere Fassino.

Tuttavia la fiducia nel presunto principio creatore dello storytelling si sbriciola sempre alla prova dei fatti, perché la realtà esiste e, quando lo ritiene, presenta il conto. È stato così quando Appendino proclamava che il progetto Parco della Salute sarebbe stato fermato, che la viabilità urbana sarebbe stata resa sostenibile e gli sforamenti dei limiti di inquinamento atmosferico contenuti, che i centri commerciali non avrebbero più trovato spazio sul suolo cittadino per ricostituire il tessuto vitale del piccolo commercio. Un rapporto distorto e forzato tra la comunicazione politica e il reale porta a fare campagna elettorale come Lady Macbeth, a governare come Amleto e, infine, a cadere come Riccardo III.

Naturalmente ogni pedagogia della comunicazione politica suona oggi ai più velleitaria e moralistica. Tuttavia il problema di stabilire in base a principi di realismo rispettosi delle cose le aspettative di un’opinione pubblica sempre più abbandonata alla reattività feroce allo status quo e protesa al «cambiamento per il cambiamento» è fondamentale per consentire una efficace fase di amministrazione. Sempre ammesso che si riesca ancora a scorgere da qualche parte quel genere di animale politico che voglia intendere l’amministrazione come fine e non come mezzo.

 

Cristopher Cepernich

 

Fotografia Corriere della Sera

 

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Articolo pubblicato il 14/03/2019