La caduta della Serenissima Repubblica di San Marco

12 Maggio 1797: il giorno più triste della storia di Venezia, che si arrende alla prepotenza di Napoleone e alla violenza dei giacobinismo.

Fra il 1796-‘97 Bonaparte, vinti gli austriaci, occupò il Veneto. Trattò la Serenissima, pur neutrale, da nemica. Venezia fu oggetto di umiliazioni, soprusi ed enormi esazioni dalla Francia rivoluzionaria, che odiava l’antica Repubblica patrizia e gli Stati italiani, lontani dall’egualitarismo giacobino e dal libertinismo immorale. Stampe infamanti e volgari circolavano contro la Signoria; le sue venerande istituzioni erano derise.

Un minoritario partito filofrancese operava nelle Istituzioni venete, colluso coi vincitori. Ma il più dei patrizi non voleva fastidi, cercava compromessi con la Rivoluzione (pur detestata) per salvare i propri patrimoni.

Il partito filoaustriaco in Senato, contrario alla Rivoluzione e guidato dal Senatore Francesco Pesaro, non fu ascoltato. Pesaro proponeva al Doge Ludovico Manin di allearsi con l’Impero, di trasferire la Signoria a Zara e lì attendere gli eventi. Napoleone aveva frattanto dichiarato guerra a Venezia, ma non aveva navi per occuparla, men che meno per arrivare a Zara.

Il piano del Senatore Pesaro avrebbe salvato Venezia, assicurandole un posto fra i vincitori di Napoleone al Congresso di Vienna del 1814-15, dove certamente essa sarebbe stata ristabilita. Così non poteva essere: Venezia aveva abdicato alla sua autorità nel 1797 e il patriziato giurato fedeltà all’Imperatore d’Austria nel 1815, ratificando così il legittimo assorbimento nei domini imperiali.

Sorse così il funesto 12 maggio 1797: il Doge Manin propose al Maggior Consiglio, quel giorno senza numero legale, di devolvere il potere al popolo. Il rumore delle salve di spari dei fedelissimi schiavoni, che davano l’addio alla Dominante nell’atto di tornare in Illiria, terrorizzò i senatori.

Temendo un imminente assalto giacobino a Palazzo Ducale, essi affrettarono la rinunzia della Signoria all’autorità. «Tollè, questo no lo dopero più»: con queste parole, mentre rimetteva il corno dogale nelle mani di un valletto, l’ultimo Doge concludeva ingloriosamente la millenaria storia della Repubblica Veneta.

Le uniche Autorità che si erano condotte con onore, gli Inquisitori di Stato e l’eroico Capitano Domenico Pizzamano, il quale, obbedendo agli ordini, aveva bombardato e costretto alla resa un vascello nemico insinuatosi in laguna, furono arrestati, come preteso da Bonaparte. Non soltanto, ma un tumulto popolare antifrancese e pro Dominante accesosi a Rialto, fu soffocato nel sangue dalle stesse Autorità venete.

Dopo mille anni di splendore e d’incontrastato dominio del Leone alato, durante i quali quel glorioso gonfalone era sventolato su tutti i mari, temuto e rispettato perfino dal Turco, l’antica città dei Dogi è consegnata a un nugolo di municipalisti intriganti e parolai, che piantano l’albero della libertà in San Marco, abbattono i leoni dell’antica Signoria, minacciano la pena di morte a chiunque osi gridare “Viva San Marco!” e che usurperanno il potere fino all’ingresso, trionfale, degli Imperiali in città, nel gennaio 1798, in attuazione del trattato di Campoformio.

In forza di esso Venezia e il Veneto passavano al Sacro Romano Impero; Lombardia veneta e austriaca erano inglobate nella Repubblica Cisalpina, alleata della Francia rivoluzionaria.

 Maurizio Ruggiero 

 

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Articolo pubblicato il 19/03/2019