Il rompiscatole.

Il sottosegretario leghista, inviso ai Cinque stelle, è l'unico a rompere il velo d'ipocrisia e a dire le cose come stanno. "Così non si va avanti".

Con quell’aria un po’ così, da lombardo burbero, incline ad andare al dunque, quando tutti vogliono convincersi del contrario, che taglia corto, come dicono dalle sue parti: “Dura minga, non può durare”. 

 

Giancarlo Giorgetti, il mediatore, abile da più lustri nell’arte del compromesso, stavolta si muove in direzione ostinata e contraria, perché il realismo non è pessimismo, a costo di essere o apparire un gigantesco “rompiballe”. È giusto così, pensa: vanno dette le cose come stanno, al netto delle interviste rassicuranti, degli spin allarmanti, di una politica come rappresentazione che prescinde dalla realtà di un governo che non c’è più.

 

Eccolo, nel suo borbottio quotidiano, l’ennesimo “dura minga”, l’ennesimo, nell’ultima settimana, dopo anni di silenzio, mesi di parole dosate col contagocce, nell’ambito di un ruolo interpretato un po’ alla Richelieu politico, un po’ alla mister Wolf tecnico, che risolve problemi, nell’era in cui si twitta prima di risolvere un dossier, perché la comunicazione è l’unico Dio: “Io non accuso nessuno ma dico che così non si può andare avanti.

 

Lo si può fare solo se dopo le Europee si torna a lavorare”. Ha deciso di dire la verità, in quest’orgia di ipocrisia di due soci di governo che non sono più d’accordo su nulla, ma, ripetono, “dureremo quattro anni”, senza dire come, dopo che il falò della campagna ha bruciato fiducia, rapporti umani e logica, perché tattica vuole, secondo un’espressione abusata, che sia l’altro a rimanere col cerino in mano.

 

Spiegano dentro la Lega che, tra lui e Salvini c’è perfetta sintonia, accomunati da un sentimento di sfiducia verso i Cinque Stelle, diventata grido di dolore che parte dal territorio, dal Nord produttivo e operoso, dalle categorie che hanno investito sulla Lega e ora vedono disattesi gli impegni presi e scattano in una standing ovation al presidente di Confindustria Boccia quando denuncia l’immobilismo.

 

La verità è che c’è qualcosa di più, di un gioco delle parti, tutto interno alla Lega. Il burbero Giorgetti, da sempre leale col capo con Bossi ai tempi di Bossi, con Maroni ai tempi di Maroni, sopravvissuto al crollo dell’uno e dell’altro non è mai stato e non è il capo di una fronda. È uno che lavora per il leader e anche nei momenti più difficili.

 

In questa sua uscita dall’ombra c’è una operazione politica, un messaggio anche a Salvini: dice ciò che pensa si debba fare e che è giusto fare, direbbero a sinistra, per la Ditta, in questo caso per Salvini che, in fondo, ancora non ha deciso fino a che punto tirare la corda fino in fondo rischia di rimanere incastrato, proprio nel momento del suo massimo successo. Non sarebbe la prima volta che il declino inizia proprio nel momento in cui è stata raggiunta la vetta.

 

Una fase si è chiusa, nella paralisi del non governo, fermo da tre settimane. Non c’è più un contratto, un orizzonte, c’è solo un gigantesco casino che renderebbe ridicolo da lunedì, far finta che non sia successo nulla. Nell’intervista di qualche giorno fa alla Stampa, il potente sottosegretario è arrivato a dire che Salvini quasi sempre “in modo irrazionale si comporta con lealtà e lo fa anche oggi, di fronte al fuoco di fila dei Cinque Stelle, manifesta una lealtà che va contro ogni ragionevolezza”.

 

È proprio questo confine, tra lealtà e ragionevolezza, che da giorni Giorgetti vuole ripristinare, soprattutto se i numeri, domenica, sono quelli che tutti si aspettano. Chi ha parlato con lui racconta che l’argine della pazienza si è rotto e, avanti così, si rischia di tracimare nell’autolesionismo. Non è il solo, in un partito in cui, basta parlare con i governatori del Nord, cresce quotidianamente il fronte del voto. Ed è indicativo quel che è successo martedì sera.

 

Salvini gli ha chiesto di pressare per riuscire a fare il consiglio dei ministri e di tentarle tutte per portare a casa il decreto sicurezza. La risposta di Giorgetti è stata brusca. E suona più o meno così: “Parlaci tu, che io con questi non ci voglio più avere a che fare”. È sinceramente convinto che non si possa andare avanti con dei partner di governo che lo accusano di ogni nefandezza, “manine” e trame nascoste, che lo descrivono come il capo del partito degli indagati, la vecchia Lega di potere legata a Berlusconi, che ormai è una perdita di tempo, come la telenovela di un consiglio che era chiaro non avrebbe portato a nulla. E infatti lunedì lo ha disertato, sapendo come sarebbe a finire.

 

È chiaro quale è la sua linea, che al momento – nelle intenzioni - è anche quella di Salvini. Presentare il conto al primo consiglio dei ministri post-voto: subito sicurezza, autonomia, i punti irrinunciabili per la Lega, senza aprire il valzer delle poltrone, il rituale della verifica, una nuova soap sul rimpasto. Se tutto va come deve andare, si dirà a Conte e Di Maio “hai visto i numeri?

 

Lo chiede il paese”, lasciando all’alleato avversario la scelta se porgere l’altra guancia o rompere. La vulgata vuole che dipende dai numeri. Certo, un conto è 30 a 25, altra è 30 a 20, ma non solo. Ma c’è un problema complessivo di agibilità nel contesto politico. I numeri innescano dinamiche.

 

La brusca sconfitta alle regionali ha prodotto un aumento di conflittualità dei Cinque Stelle per recuperare, un successo alle europee darebbe loro forza negoziale. Comunque la metti, arriverà il momento delle scelte, alla prossima nave che sbarca, al primo provvedimento che non si potrà più rinviare. Il rompiballe si è messo un passo avanti. E finora ha avuto ragione lui.

 

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Articolo pubblicato il 23/05/2019