Primo ostacolo Conte.

Il Governo M5S-Pd è possibile, ma non con un Conte-bis. E rischia di andare a vuoto il primo giro di consultazioni. Il Pd ragiona su una “discontinuità” di nomi da entrambe le parti.

Il problema è Conte. È questo il senso della “discontinuità” di agenda e, soprattutto, di uomini, su cui il segretario del Pd Nicola Zingaretti ottiene il mandato (per acclamazione, e questa è una notizia) dalla direzione del suo partito. Per trattare su un Governo con i Cinque stelle, ma non a tutti i costi, con uomini buoni per tutte le stagioni. E nell’ambito di una cornice politica che archivi la logica del “contratto”. Tanto per intenderci: quella del “fuori i verdi, dentro i rossi”, purché Conte & co. restino nelle ovattate stanze del potere abitate finora.

 

Diciamo le cose come stanno: è un mandato che, di fatto, rischia di mandare a vuoto il primo giro di consultazioni al Colle. Perché lì i Cinque stelle si presenteranno con l’ipotesi di “proseguire con Conte”, senza indicare per ora altri nomi, prima di capire quale potrà essere il suo destino che non può terminare con un “arrivederci e grazie”.

 

È questo il punto che Di Maio ha compreso in tutta la sua portata politica, leggendo le dichiarazioni di Zingaretti: “Questo di Conte per noi è un problema serio” ha detto ai suoi. I sondaggi danno il Movimento attorno al 10% e le uniche speranze, in caso di voto, solo legate all’esposizione dell’ex premier, l’unico a tenere negli indici di popolarità e fiducia: “Come facciamo a tenerlo fuori?”.

 

Comunque la scelta sarebbe foriera di un’ulteriore tensione nel Movimento, tra i due leader, gli staff, il corpaccione dei parlamentari che vive come leader naturale l’avvocato che le ha cantate a Salvini. È così che si spiega il granitico silenzio di un Movimento solitamente ciarliero che con una nota quasi bulgara fa sapere che la posizione sarà nota domani e che è “monolitico” attorno a Luigi Di Maio, proprio nel momento in cui di monolitico c’è poco.

 

I gruppi, dice qualcuno, “voterebbero Dell’Utri premier, pur di non andare a casa”, ma i big sono divisi alla prima condizione della trattativa col Pd. Di Battista e Taverna vogliono votare, Di Maio vuole fare il Governo, Conte non pensa affatto di tornare ai suoi amati studi.

 

Ecco perché anche un ottimista come Dario Franceschini, a margine della direzione del suo partito, confidava a qualche collega: “Oggi la vedo 50 e 50. Al 50% si fa il governo, al 50% si vota”. Non a caso nei giorni scorsi, il suo suggerimento era quello di tenere l’avvocato con la pochette a palazzo Chigi, in uno schema che prevedesse l’ingresso di Zingaretti al Governo come suo vice, ipotesi che il segretario ha decisamente scartato.

 

E la novità è proprio la mossa di Zingaretti, che è riuscito a posizionare il Pd, in questo negoziato, in maniera degna, dopo le convulsioni di questi giorni. Come partito, per una volta, e non come aggregato di bande. Su una posizione autonoma. Se avesse detto “al voto”, si sarebbe sciolto il Pd dopo un minuto; se avesse ceduto alla linea “Governo a tutti i costi”, si sarebbe messo nelle mani di Renzi. Ha invece ottenuto un mandato per andare a vedere, altrimenti si vota. Le condizioni, messe nero su bianco, non ostacolano il confronto, come si dice in gergo, ma ne fissano una cornice.

 

A partire da un punto non irrilevante, politicamente e culturalmente, che è la richiesta di un riconoscimento della democrazia parlamentare come prassi e terreno del confronto. È uno “schiaffo” diretto alla Casaleggio Associati, laboratorio culturale della sostituzione della democrazia rappresentativa con la democrazia diretta.

 

Il passaggio del documento ribalta quel che Davide Casaleggio ripete in ogni intervista: “Il modello della democrazia ottocentesca non resterà”. Scendendo sul concreto significa che la riduzione dei parlamentari si resetta, e la discussione semmai ricomincia da capo, così come si resetta il referendum propositivo. Insomma, dicono al Nazareno: “Nicola ha messo i titoli, poi su ogni punto si entrerà nel merito”.

 

Ecco, sia pur senza traumi, il Pd entra nella trattativa ribadendo che questo anno non si può rimuovere. Ma, parliamoci chiaro, il problema vero sono i nomi. Il possibile nome per palazzo Chigi ancora non c’è. E non c’è uno schema condiviso sul resto, finché non si dipana la questione Conte. Anzi, nella parola “discontinuità” si intravede anche un’altra possibile traccia di lavoro, che al Nazareno qualcuno ha in mente: “Fuori tutti quelli che sono stati al Governo con Salvini e fuori anche tutti quelli che sono stati nei Governi passati”.

 

Per ora è una suggestione, ma c’è nella formula “il migliore dei Governi possibili”. Che darebbe il senso della novità rispetto all’immagine del Governo degli sconfitti. Il problema, al momento, è l’inquilino di palazzo Chigi. Come hanno capito bene al Colle, dove continua a prevalere lo scetticismo. E sbaglierebbe chi pensa che, in qualche modo, il nome possa essere suggerito da Mattarella.

 

Alessandro De Angelis

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Articolo pubblicato il 22/08/2019