Misteri pagani, mistero cristiano

Il nuovo libro di Ezio Albrile Albrile dedica ampio spazio ai misteri di Iside e di Osiride, presenti nel municipio romano di Industria, oggi Monteu da Po, nei pressi di Torino

I miti fondanti, come la ragione poetica, sono importanti, servono a dare forma a civiltà degne di questo nome. Il mito è pensiero. Volgersi al mito (in senso vichiano) lo faceva già Leopardi: Io nel pensier mi fingo sovrumani silenzi e profondissima quiete.

 

Fingere non significa ingannarsi. L’io poetico non vede il proprio contenuto come illusorio, ma come “pensiero” che oltrepassa gli spazi finiti della propria vita. Il valore del mito si unisce nel profondo, nel suo recondito “mistero”, che è il rapporto con l’esperienza ultima, la morte.

 

L’uomo delle società tradizionali si è sforzato di vincere la morte in se stesso attribuendole un’importanza tale che infine la morte ha cessato di sembrare una fine ed è diventata un rituale di passaggio: si muore sempre a qualche cosa che non è essenziale; si muore soprattutto alla vita profana.

 

In breve, si giunge a considerare la morte come la suprema iniziazione, cioè come l'inizio di una nuova esistenza spirituale. Anzi: generazione, morte e rigenerazione sono state comprese come i tre momenti di uno stesso mistero, e tutto lo sforzo spirituale dell’uomo tradizionale è rivolto a dimostrare che tra questi momenti non deve esistere frattura.

 

Anche la saggezza e, per estensione, ogni conoscenza sacra e creatrice sono concepite come il frutto di un'iniziazione, cioè come il risultato a un tempo di una cosmogonia e di una nuova generazione. Non senza ragione Socrate si paragonava a una levatrice: aiutava l’uomo a nascere alla coscienza di sé. Ancora più nettamente, san Paolo parla del discepolo Tito come di «vero figlio» che ha procreato con la fede.

 

Dobbiamo ringraziare Ezio Albrile, e il suo nuovo libro “Misteri pagani, mistero cristiano” (Mimesis, Milano 2019, Euro 14,00), per aver rielaborato queste antiche e desuete riflessioni. Non ultima, la segnalazione di un fatto archeologico che riguarda direttamente la nostra regione.

 

Albrile dedica infatti ampio spazio nel suo libro ai misteri di Iside e di Osiride, presenti nel municipio romano di Industria, oggi Monteu da Po, nei pressi di Torino. Nell’Iseo cisalpino è presente anche un Serapeion, cioè un sacello del dio Serapide, in greco Sarapis, crasi di Osiride e Api.

 

Api era il toro sacro venerato a Menfi quale incarnazione del dio Ptah; dopo la morte diventò un Osiride, quindi un Osiris-Apis → Osorapis → Sarapis. Presente già al tempo di Alessandro Magno, il culto di Serapide venne introdotto ufficialmente ad Alessandria da Tolemeo I quale divinità dell’oltretomba con attributi solari e poteri taumaturgici. Il suo culto seguì quello della sua «sposa» Iside. Sempre a Industria si venerava anche un altro dio egizio, forse il più importante: Ammone, cioè Amon-Râ, il dio solare identificato con Zeus. Nel 332 a.C. i sacerdoti del dio, nell’oasi di Siwa, proclamarono Alessandro Magno suo figlio.

 

Ma chi introdusse questa congerie di dèi allogeni nello spazio urbano di Industria?

 

Oculate ricerche hanno provato che responsabili dell’importazione di questi culti furono due famiglie, due gentes, membri dell’aristocrazia municipale, gli Avillii e i Lollii. Una serie di testimonianze epigrafiche attestano appartenenti a queste due famiglie tra i mercanti italici dediti al culto delle divinità egizie attestati nell’isola di Delo e a Roma.

 

Ma la mercanzia trattata dai nostri era di un genere un po’ particolare, umana: le due gentes erano infatti note come famiglie di mercanti di schiavi devoti della dea egizia. La loro presenza nella Gallia Cisalpina si spiega prima che per ragioni religiose, per motivazioni strettamente mercantili: ad attirare la famiglia degli Avillii fu infatti la schiavizzazione di massa della popolazione indigena e ligure dei Salassi, l’etnia sconfitta venduta da Terenzio Varrone nel mercato di Eporedia in numero di 36.000 tra uomini, donne e bambini, e molto probabilmente utilizzati sia per l’estrazione di materie prime minerarie di cui lo stesso territorio alpino era ricco e sia per la costruzione di un ponte di proporzioni ragguardevoli all’imbocco della valle di Cogne in Val d’Aosta (tuttora conservato) che venne inaugurato nell’anno 3 a.C.

 

Il ponte non serviva solo come via di passaggio, ma era funzionale allo scorrimento delle acque utili alle fonderie dei metalli. È probabile che gli Avillii si fossero aggiudicati l’appalto del distretto minerario e si servissero del ponte per portare a valle il metallo grezzo, stagno, rame e piombo, che andava a formare quel bronzo che serviva a foggiare gli ex-voto di Iside e di Serapide.

 

Gli ex-voto di potenti divinità misteriche che venivano poi venduti nel santuario di Industria. Una mercificazione del sacro che ha radici antichissime e che nel nostro caso si unisce a un processo di schiavizzazione di una intera etnia.

 

La nostra specie come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 40mila anni è destinata a scomparire. Tutti hanno le loro colpe: miopia di élites decrepite, scarsa preparazione dei politici, cassa di risonanza del Web, movimenti che parlano in nome della pancia popolare, tutti fattori che sgorgano dalla cancellazione delle radici culturali, dall’oblio della memoria arcaica.

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Articolo pubblicato il 10/11/2019