"Duezampe"

Un racconto di Maria Rosa Arena

Che fosse l'orario giusto - anche senza avere un orologio - lo aveva capito dai rumori; e non solo quelli del suo stomaco. E la conferma l'aveva dagli ombrelloni: quando si chiudevano - quei rossi, gialli, verdi e arancioni svanivano - lasciando spazio al cielo. Subito dopo quei gran cosi coi motori cominciavano a fare TUM TUM e ROAR ROAR e allora alzava le orecchie e veniva fuori. Erano mesi che viveva a pochi passi da Porta Palazzo, nei bastioni delle Torri Palatine. Nel suo vagabondare aveva scoperto un piccolo ingresso dal Parco e una sera vi si era infilato. La prima volta si era graffiato e si era scorticato, poi aveva imparato a entrarci piano piano e non era più successo. Meno male! Leccarsi per il piacere e non per il dolore era tutt'altra cosa: erano cose che imparavi facilmente se eri un cane intelligente come lui.

Aveva scoperto così che il primo pomeriggio era decisamente il momento migliore: l'asfalto profumava di tutte quelle cose buone e lui ogni volta vi saltellava nel mezzo, strisciando il naso sul plateatico come una bussola.

 

A volte era fortunato altre meno. La verdura non era proprio il suo cibo prediletto – a parte il sedano, oh quanto gli piaceva - ma la frutta lo deliziava ed era meglio di niente. E sicuramente non era schizzinoso: il fatto che spesso fosse spiaccicata dall'impronta grigia di qualche scarpa, non gli importava. Anzi! Riusciva a leccarne direttamente la polpa procurandosi un piacere tale che gli faceva brillare gli occhi neri di gratitudine. Certo ogni tanto c'erano delle contrarietà: spesso qualcuno lo scacciava in malo modo, ma lui si spostava velocemente, ricomparendo subito dopo. La lingua infilata fra i denti. Gli umani non erano molto sociali. Ce n'era per tutti, perché inquietarsi? Arance, pere, foglie d' insalata mezza marcia e mele gialle. E pomodori. Rotolavano e saltavano negli schizzi d'acqua di quei cosi che facevano ROAR. Quelli erano i più ricercati ma a lui non piacevano. Che se li prendessero pure. Erano aspri. Coloravano la bocca di un rosso che finiva sempre per colargli fra i denti. Allora sì che qualcuno lo cacciava a pedate o col bastone. E faceva male. Chissà a cosa pensavano! No, la frutta era meglio.

Non lo chiamavano “Ehipussavia”, quando mangiava quella.

 

Certo la carne era un'altra cosa. Ma su quella ci poteva contare solo la sera. E non sempre. A Borgo Dora qualcuno gliela lasciava assieme a qualche osso. In un cartoccio. Davanti a quei posti dove si riunivano gli umani. Però doveva essere veloce, altrimenti qualcuno di loro gliela avrebbe potuto gettar via. E che spreco!

 

Una sera una duezampe - che si trascinava un carrello - gli si avvicinò. Lui stava assaporando un'ala di pollo e ringhiò, pensando che volesse buttargliela: come fece l’umano in giallo il giorno prima. Invece lei fece solo quella strana cosa che illuminava il viso degli umani e li rendeva quasi guardabili. Allungò una mano e disse:

“Ehi-vieni-qui-bello-mio!”

E poi l'accarezzò.

Che cosa incredibile!

Mise mano nel suo carrello e afferrò una ciotola. Vi versò dell'acqua. Era meno fredda di quella della fontana e sapeva di pulito.

Poi lo accarezzò di nuovo, inchinandosi. Gli occhi grandi.

«Vieni con me?» gli chiese.

Maria Rosa Arena

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Articolo pubblicato il 26/01/2020