Vittorio Emanuele II di Savoia Re dei Popoli d'Italia (20 marzo 1820 – 9 gennaio 1878)
Andrea Bestighi, Ritratto di S.M. Vittorio Emanuele II (1860) - Museo d’arte della città di Ravenna

di Aldo A. Mola

“Per grazia di Dio e per volontà della Nazione”

 

Il 14 marzo 1861 la Camera dei deputati approvò all’unanimità la legge presentata da Camillo Cavour: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia”. Con la sua pubblicazione nella “Gazzetta Ufficiale” il 17 marzo nacque il Regno d’Italia, il cui vero genetliaco rimane il 14 marzo. La data non era affatto casuale. Re Vittorio era nato a Torino il 14 marzo 1820, primogenito di Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano, e di Maria Teresa d’Asburgo-Lorena. Il 13 marzo 1861 il generale Enrico Cialdini comunicò la resa di Messina. Gaeta era caduta un mese prima. Francesco II di Borbone e la consorte Maria Sofia di Wittelsbach erano partiti alla volta dello Stato pontificio su vascello francese. Civitella del Tronto si sarebbe arresa il 20 seguente. Il 17 aprile la Camera deliberò che negli atti il nome del Re fosse seguito dalla formula “per grazia di Dio e per volontà della Nazione”. Tradizione, legittimità e volontà popolare. Così fu coronato il Risorgimento d’Italia.

 

Nel frattempo, il 27 marzo 1861 quasi all’unanimità il Parlamento approvò il “voto” proposto da Carlo Bon-Compagni su sollecitazione di Cavour: “Roma, capitale acclamata dall’opinione nazionale, sia congiunta all’Italia”. Re e Nazione. Sovrano, governo e Parlamento (il Senato di nomina regia e vitalizio, la Camera elettiva) formavano la catena di unione evocata da Cavour il 14 marzo: “Tutti abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa (…); di qui parta unanime adunque quel grido di entusiasmo, qui finalmente l’aspettata fra le nazioni si levi e dica Io sono l’Italia!”. Cavour non amava la retorica. Stava ai fatti. Fra i deputati vi erano Giuseppe Garibaldi, tanti patrioti già seguaci di Giuseppe Mazzini, alcuni federalisti: la “concordia discors” dalla quale la Patria aveva assunto forma di Stato e prendeva il suo corso.

 

Dal Piemonte, l’Italia

 

Perché la centralità del Re? 

 

Nell’età franco-napoleonica (1798-1814) il “Piemonte” era stato annesso alla Francia. Dopo otto secoli di storia gloriosa aveva cessato di esistere. Come lingua ufficiale gli fu imposto il francese. Dopo la Restaurazione del 1814, aveva ripreso la via delle libertà proprio con Carlo Alberto di Savoia-Carignano che nel marzo 1821 promulgò pro tempore la costituzione spagnola con la riserva del rispetto dei culti ammessi (israeliti e valdesi). Dopo lunghe traversie e la sconfitta nell’impari guerra contro l’Impero d’Austria, l’abdicazione e l’amaro esilio di Carlo Alberto (1848-1849), il regno di Sardegna fu l’unico in Italia a conservare lo Statuto che aveva introdotto la monarchia rappresentativa, l’elettività alle cariche locali e dichiarava i cittadini uguali dinnanzi alle leggi. Non per caso esso divenne rifugio di esuli politici da tutta Italia, con i loro propositi, spesso fuori misura, come Carlo Pisacane, ferocemente antisabaudo. Il regno di Sardegna propiziò la nascita di una dirigenza politico-amministrativa vastissima e varò la modernizzazione in ogni settore della vita pubblica e privata. Con l’onerosa partecipazione all’alleanza anglo-franco-turca contro l’impero di Russia (1854-1855) e al congresso di Parigi (1856) entrò nel grande gioco delle Potenze europee.

 

   Asceso al trono a 29 anni mentre il “Piemonte” era in condizioni disperate, Vittorio Emanuele II si mostrò politico lungimirante. Incoraggiò, accettò e a volte subì le pulsioni della Camera e di suoi litigiosi capifila. Guadagnò la simpatia della Gran Bretagna e l’alleanza con la Francia di Napoleone III, suggellata dalle nozze di sua figlia, la sedicenne Clotilde, con Napoleone Gerolamo Bonaparte. Ebbe chiaro che il Regno di Sardegna non poteva “fare da sé”. Alleato con Parigi, nel 1859 ottenne la Lombardia, mentre i liberali suscitavano insorgenze nei Ducati padani e nelle Legazioni pontificie e inducevano il granduca di Toscana (un Asburgo-Lorena) a lasciare Firenze. Le richieste di annessione furono ratificate da plebisciti. Nel settembre 1860, mentre Garibaldi, vittorioso in Sicilia già era arrivato a Napoli, Re Vittorio ebbe “via libera” da Napoleone III (“fate, ma fate in fretta”): invase Umbria e Marche per proteggervi i liberali dalle vessazioni dei papalini e proseguì nel regno delle Due Sicilie, ove in ottobre si congiunse con il Generale, vittorioso a Calatafimi, Palermo, Milazzo, al Volturno: valoroso condottiero assai più che politico avveduto. Se n’ebbe conferma nel 1862 e nel 1867 quando Garibaldi capeggiò due “spedizioni” sconsiderate e sfortunate. Altri plebisciti confermarono il Re costituzionale.

 

  In diciotto mesi prese corpo il sogno di generazioni di patrioti: fare l’Italia. Il difficile venne dopo, sia per gli ostacoli interni, a cominciare dal “grande brigantaggio”, alimentato dall’estero e dal clero, sia per l’enorme divario tra i popoli e le terre d’Italia. Anzitutto occorreva ottenere il riconoscimento dello Stato nella Comunità internazionale. Ci vollero sette anni ad averlo.

 

Riconosciuto nel 1861 da Gran Bretagna, Grecia, Svizzera e Stati Uniti, dalla Francia solo dopo la morte di Cavour, nel 1862 da Russia e Prussia e poi da Spagna e altri, nel 1867 il regno d’Italia sedette per la prima volta in una conferenza diplomatica europea con la presenza dell’Austria cui, grazie all’alleanza con la Prussia e la mediazione di Napoleone III, nel 1866 aveva sottratto Mantova e Venezia.

 

L’Italia dalla scomunica (beato Pio IX) al riconoscimento (san Paolo VI)

 

Scomunicato dal 26 marzo 1860, dopo esitazioni e tentativi di persuadere Pio IX a risolvere pacificamente la “questione romana”, nel settembre 1870 il cattolicissimo Re Vittorio ordinò la spedizione che agli ordini di Raffaele Cadorna irruppe in Roma. Tra il 1861 e il 9 gennaio 1878, quando morì, il sovrano vide susseguirsi quindici diversi governi. Assisté alle logoranti diatribe tra maggiorenti e fazioni parlamentari.

 

Sulla fine del 1877 osservò sconsolato: “Non sono ancora vecchio, e già mi trovo a essere il decano dei patrioti e degli uomini politici del mio paese”. Da oltre un anno aveva nominato presidente del Consiglio Agostino Depretis, esponente della Sinistra storica, già più volte ministro. Nel 1878 l’irpino Francesco De Sanctis tornò ministro della Pubblica Istruzione, come già con Cavour e Bettino Ricasoli. Di lì a poco la Corona ebbe l’omaggio solidale di Giosue Carducci. In “Piemonte” il “Maestro e vate della Terza Italia” evocò l’omaggio dei patrioti a Carlo Alberto agonizzante a Oporto. Ricordò che erano stati i patrioti, molti dei quali massoni, a volere i Savoia a Roma. Toccava a loro di mantenerveli, perché i Re erano gli unici veri garanti di unità, indipendenza e libertà degli italiani.

 

Secondo il racconto del cappellano maggiore, canonico Vittorio Anzino, che gli impartì il viatico nei modi documentati da Aldo G. Ricci, Re Vittorio invocò la benedizione del Signore sul figlio Umberto di Piemonte, al quale passava “un brutto fardello, oh che brut fardel!”. Era andata peggio a fra Giacomo da Poirino, sospeso a divinis per aver amministrato l’estrema unzione a Cavour.

 

   Nel trentennio di Vittorio Emanuele II l’Europa cambiò profondamente. Malgrado conflitti circoscritti, la pace generale resse. Nacquero stati indipendenti nell’Europa orientale e si moltiplicarono le rivendicazioni dei popoli senza Stato. Sorto per propiziare la stabilità, il Regno d’Italia estese la sua costruttiva influenza dalla Grecia al Portogallo (il cui sovrano, Luigi I, sposò Maria Pia, terzogenita di Re Vittorio) e alla Spagna, ove per breve tempo regnò il suo secondogenito, Amedeo duca d’Aosta. Vittorio Emanuele instaurò lungimiranti legami con il conferimento di Collari della SS. Annunziata, comportanti il rango di “cugino del re”, anche a sovrani e principi non cattolici, in una visione universale della missione dell’Italia.

 

Nel 2011 un importante “Fondo ambientale” pubblicò i ritratti dei quattro artefici dell’unificazione: Mazzini, Garibaldi, Cavour e Azeglio. Con un errore di merito e di metodo Re Vittorio non vi comparve. Eppure l’Unità degli italiani è anzitutto opera sua. Aprendo l’VIII Legislatura del regno, il 18 febbraio 1861, egli affermò che l’Italia era “libera ed unita quasi tutta per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli Eserciti”. San Paolo VI nel 1970 riconobbe che l’annessione di Roma all’Italia fu provvidenziale. Nel 150° di Porta Pia e nel 200° della sua nascita, Vittorio Emanuele II e suo nipote Vittorio Emanuele III, che nel 1918 ne completò l’opera, vanno ricordati insieme all’Altare della Patria, dinnanzi al Sacello del Milite Ignoto, emblema dell’“Itala gente da le molte vite”.

 

Aldo A. Mola

Immagine di apertura: Andrea Bestighi, Ritratto di S.M. Vittorio Emanuele II (1860) - Museo d’arte della città di Ravenna (Fonte Wikipedia).

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Articolo pubblicato il 08/03/2020