Torino - Danilo Bruni: un personaggio vero nella vita e nel mondo dello spettacolo

Da alcuni anni svolge il suo lavoro più come adattatore dei dialoghi che come doppiatore

Abbiamo incontrato Danilo Bruni, personaggio poliedrico di grande spessore culturale, che ci ha raccontato come vive l'ultima  espressione di una luminosa carriera che lo ha portato alla ricerca delle origini di espressioni  normalmente usate e che hanno destato in lui la curiosità e la spinta alla scoperta di certi modi di dire, proverbi o locuzioni.

 

 

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Da alcuni anni svolgo  il mio lavoro più come adattatore dei dialoghi che come doppiatore, pur continuando a doppiare film e telefilm e a tenere i corsi di dizione e di doppiaggio al Centro D di Torino. La mia esperienza ormai quarantennale nel settore ha fatto sì che con i miei copioni il doppiaggio diventi un po’ più facile.

 

Il lavoro dell’adattatore dei dialoghi è, in pratica, quello di mettere letteralmente in bocca le parole ai personaggi sullo schermo, rispettando il significato, il sottotesto, i ritmi di recitazione, le pause, le cesure e segnalando i campi di inquadratura in modo da realizzare una sorta di grezzo spartito musicale di quanto avviene sullo schermo. Più le battute sono scritte in modo preciso, con un linguaggio fluido e appropriato a ciascun personaggio (senza cacofonie, ripetizioni inutili o bisticci di parole) più il direttore del doppiaggio e i doppiatori si possono concentrare esclusivamente sulla recitazione, rendendo l’edizione italiana migliore.

 

La parola d’ordine non è tradurre, ma trasporre, che è un’operazione più complicata e, permettimi di dirlo, raffinata. Poiché molti modi di dire, proverbi e frasi fatte, nelle lingue straniere, se tradotte letteralmente, sarebbero ridicole e a volte incomprensibili, ecco che la traspisizione è d’obbligo.

 

Per esempio gli americani dicono “piove cani e gatti” per dire che piove a catinelle oppure toccano legno al posto del nostro ferro ecc.

Un buon adattatore dei dialoghi, quindi, deve conoscere proverbi e locuzioni, che possano agevolarlo nel trasporre in modo più vero e credibile il concetto espresso nelle varie lingue straniere, così ho iniziato a fare delle ricerche e, di consegienza, a approfondire anche l’origine dei modi di dire.

 

Sono contento di questa collaborazione con Civico20News, che si presenta in un momento di difficoltà, ma che ci dà il tempo di fare cose, che in altri momenti avremmo accantonato con dispiacere.

 

 

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E proponiamo una "prima ricerca" che ci porta a quella che Bruni descrive come la "fama immeritata di Jacques de Chabannes signore di La Palice" da cui nasce l'aggettivo "lapalissiano".

La Palice era un uomo di rara intelligenza, Maresciallo di Francia, ebbe una brillante carriera militare costellata di gesta eroiche, iniziata all’età di 16 anni. Morì valorosamente nella battaglia di Pavia il 24 febbraio 1525.

I suoi soldati gli dedicarono una canzone per celebrare il suo coraggio, i cui versi dicevano: “S’il n’etait pas mort, il ferait encore envie.” Se non fosse morto farebbe ancora invidia.

Ma un altro equivoco tra la esse e la effe e nella parola envie, (ferait farebbe - serait sarebbe e envie invidia - en vie in vita) ha indotto qualcuno a trascrivere: “… il serait encore en vie” se non fosse morto sarebbe ancora in vita.

Da qui nasce il termine lapalissiano, cioè banale, scontato, ridicolo per la sua ovvietà, che ha cancellato i meriti del povero La Palice.

 

Danilo Bruni

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Articolo pubblicato il 26/03/2020