L'Archeologia Industriale in Italia

Qualche semplice riflessione sullo stato dell’arte, di Marco Montesso (prima parte)

La materia è nuova, nel senso che in Italia ha iniziato ad interessare studiosi dell’industria, in termini esaustivi e appassionati di realtà produttive dismesse, solo dagli anni settanta del ventesimo secolo.

Il motivo di questa “giovinezza” risiede soprattutto nel fatto che solo in quegli anni, seguenti a quello che da noi è stato chiamato periodo del boom economico imperniato principalmente sull’intrapresa industriale, manifatturiera, si è progressivamente assistito ad una progressiva, e in certi casi irreversibile, chiusura o almeno ridimensionamento del comparto.

In termini pratici, uno stabilimento industriale terminava di essere tale, per la delocalizzazione in Italia o all’Estero, perché strutturalmente obsoleto, perché non più redditizio e via dicendo, e si trasformava in una “scatola” vuota.

Spesso con gli anni si trasformava in uno pseudo rudere, abbandonato a se stesso, diventando, magari con l’ingiuria del tempo, degli agenti atmosferici e, in maniera ancor più rilevante, con atti di vandalismo fine a se stessi o tali da trasformarlo in bivacchi temporanei e non sempre di edificanti destinazioni, una sorta di “scheletro” nel panorama per lo più urbano. A volte si procedeva alla demolizione di quel che restava; altre volte, le più fortunate per così dire, lo si restaurava cambiando necessariamente la destinazione d’uso.

In questo contesto, quindi, iniziarono le prime catalogazioni, i primi rilievi architettonico-strutturali, le prime testimonianze fotografiche, ecc. E analogamente a ciò che già negli anni cinquanta si andava praticando in Gran Bretagna e successivamente in altre Nazioni del Nord e Centro Europa di più antica e solida tradizione industriale.

È bene ricordare che dall’Inghilterra in primis e dal Galles, Scozia poi sin dagli anni successivi al secondo conflitto mondiale sono nate associazioni dilettantistiche, ma ricordando di dare a questo termine il significato più nobile, via via quelle scientifico-accademiche, che si sono interessate di salvaguardare la memoria, l’Heritage, come si dice laggiù, di stabilimenti ma pure di strutture ed infrastrutture a questi nel tempo funzionali, quali ponti d’acciaio, reti viarie e ferroviarie, porti e approdi navali sia marini che fluviali, docks, ecc. Tutto quanto avesse avuto attinenza con le attività imprenditoriali nel senso più ampio del termine, insomma, e che, come sottolineato poco sopra, rischiava di scomparire definitivamente o di esser nel tempo degradato per le note ragioni. Qui si arriva al primo punto focale per la determinazione della A. I.

Perché questo interessamento, che avrebbe potuto essere rivolto analogamente anche ad altre “cose”, quali, per esempio, le cassette postali d’antan o le casette per i volatili nei parchi delle principali capitali europee, e via discorrendo?

Ora, lungi dal non ritenere degno di considerazione quegli esempi testé fatti, concettualmente e concretamente si deve riconoscere che uno stabilimento o un ponte ha avuto non solo un valore, più o meno elevato, dal punto di vista architettonico o ingegneristico, valore su cui tra l’altro si può discutere, ma ha determinato, sopra ogni cosa, la trasformazione del territorio circostante e ha inciso sullo stile di vita professionale di chi, a vari livelli, ci lavorava per primo e su quello delle loro famiglie. Spesso intorno a questi insediamenti produttivi ed alle infrastrutture a loro afferenti, venivano edificati dei villaggi per i lavoratori.

Accanto a questi moduli abitativi crescevano strutture pubbliche quali scuole, asili, luoghi di ritrovo dopolavoristico voluto dalle imprese, giardini, ecc. unitamente al progressivo insediarsi di botteghe artigianali, di negozi alimentari, di spacci, dispensari sanitari se non addirittura di ospedali, di uffici comunali decentrati, di poste e telegrafi, di banche, ecc.

Tutto ciò comportava la nascita e lo sviluppo sempre più rilevante di un nuovo ceto inurbato, grazie alle industrie, che andava a incidere pure sullo sviluppo urbanistico e sulla struttura cittadina. Si creavano nuove dinamiche sociali, nelle relazioni, nella politica, ecc.

Si è perciò giunti ad un ulteriore aspetto della A. I.

Quella riguardante il suo “valore” sociale o, come si sostiene aulicamente, demo-etnoantro-sociologico. In poche parole, la nascita dell’uomo, che dalle campagne si inurba per attendere alle lavorazioni industriali modificando gradualmente la sua “natura” lavorativa e passando alla prole la mutazione in atto creando, in tal modo, una nuova generazione con connotazioni urbane.

Tutto ciò porta ad affermare che l’A. I. è eminentemente disciplina sociale, studiata con la lente storica e affiancata, laddove ci siano testimonianze architettoniche e strutturali più o meno evidenti, che si tratti di ruderi o di cambiamenti d’utilizzo appunto, da competenze “ingegneristiche”, in sede di rilievi e catalogazioni. È proprio in seguito a tali considerazioni, che son accresciute nel tempo dai primordiali anni settanta, che la disciplina è stata oggetto di disamine accademico-speculative.

Si vedranno sempre più impegnati storici dell’industria, principalmente economisti, storici della tecnologia, soprattutto ingegneri, sociologi urbani e industriali si sono confrontati tra loro, trovando, per l’appunto, tutti degli spunti di riflessione, studio e ricerca utili alla determinazione e sviluppo dell’A. I.

Ovviamente, dato il termine di Archeologia che definisce la materia, non potevano non intervenire, e sempre con serietà di intenti, studiosi della materia dell’antichità. Ora, en passant, urge spiegare come gli archeologi affrontarono la quaestio.

Accanto agli irriducibili impermeabili alle novità, si pensi in particolari a quelli che fino a pochi decenni fa osteggiarono il valore accademico dell’Archeologia Medievale, con l’accusa di “modernità”; altri, pur essendo studiosi di antichità classiche, quindi quanto di più lontano dal contemporaneo, ebbero concretamente ad intervenire nella discussione. Alcuni di loro riconobbero l’ineluttabilità del progresso, dovuto al tempo che passa, incidente pure sulle discipline accademiche, e riconobbero sotto l’etichetta di Archeologia post medievale e moderna la possibilità di sviluppi ulteriori della disciplina. Va da sé che a seconda dei Paesi di appartenenze degli accademici in questione variava la percezione della disciplina.

Per esempio, se nella tradizione anglo-americana l’Archeologia è considerata una branca dell’Antropologia, quindi con gli stilemi della Scienza Sociale, e poiché in GB, poi in USA e paesi Commonwealth per “simpatia” si iniziò già nel dopoguerra ad interessarsi dell’A. I., come si è visto, la nascita della Materia non ebbe particolari problemi. Da decenni ivi e colà vi esistono cattedre, corsi master, Ph. D; da noi, patria dello storicismo crociano e dalla impostazione formativa gentiliana e in quanto Nazione con un altissimo numero di antichità classicistiche a livello mondiale, ci si è arrivati, e non compiutamente ancora, solo in tempi molto più recenti. Senza considerare l’ostracismo più o meno velato che permane presso molti archeologi togati.

Non del tutto a torto, tuttavia, la disciplina viene vissuta come un’attività da ingegneri ed economisti storici, si obietta che dell’archeologia in senso stretto non utilizza gli strumenti peculiari quali lo scavo, la stratificazione, ecc. Non del tutto a torto, si è scritto poc’anzi, ma tuttavia si può obiettare che della stessa Archeologia Medievale si dicevano cose analoghe, eppure poi essa è divenuta una disciplina universalmente stimata e foriera di sempre validi progressi.

Lo stesso può dirsi sulla disputa tra studiosi di Preistoria, per gli uni branca della Paleontologia, quindi disciplina ascrivibile alle scienze naturali, divenendo interessante per l’Archeologia solo quando nascono le prime facies, come usa da poco tempo definire le civiltà o le civilizzazioni avendo un valore neutro e politically correct, del periodo dell’Età del Bronzo, gli altri a sostenerne il primato delle Scienze Storiche anche a proposito delle Ere più antiche.

Che dire poi del fatto che fino agli anni trenta del secolo scorso, ma con strascichi giunti talvolta fino al dopoguerra, per la forma mentis di taluni studiosi, l’Archeologia era ancora concepita come Storia dell’Arte, che le gipsoteche per la statuaria facevano la parte del leone nello studio dell’Archeologia classica e non solo. In tal modo ignorandone totalmente gli aspetti “sociali”, che si son descritti prima, e che ora sono basilari e inscindibili da qualsiasi contesto archeologico scientifico e militante.

Ciononostante già dagli anni venti e trenta si era fatta strada con la scuola degli Annalisti, dei francesi Bloch e Fevre, l’idea della storia che fosse sociale, degli uomini comuni, ecc. e non più solo dei re, dei generali e delle battaglie. Come non ricordare che sempre dal dopoguerra in particolare e soprattutto dagli anni sessanta e settanta, sull’onda casuale delle ricognizioni aeree compiute in periodo bellico dagli Alleati sul nostro sud, si è imposta l’aerofotogrammetria e finanche il rilievo di zone suscettibili di interesse archeologico attraverso il sistema satellitare, utilizzato, quando non per scopi di intelligence e militari, anche da geologi, botanici, agronomi, ecc.

Marco Montesso

(montesso.marco@icloud.com)

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Articolo pubblicato il 31/03/2020