Donne combattenti nella Grande Guerra
Stato Maggiore del Battaglione femminile di Pietrogrado

di Fabio Cecchi

Dalla Rivista Italiana di Sanità Militare n. 85/2020 (RISM), grazie alla cortese disponibilità del suo Direttore, Fabio Fabbricatore, riprendiamo questo articolo di Fabio Cecchi dedicato alle donne combattenti nel corso della Prima Guerra Mondiale. Si tratta di un qualificato contributo al tema della “donna soldato“, già considerato alcuni anni or sono nei “Tandem tra finzione e realtà” scritti con la collaborazione di Fabio Mandaglio (m.j.).

 

Donne combattenti nella Grande Guerra

 

In Italia la più famosa fu Luigia Ciappi, una giovane maestra che voleva a tutti i costi partire per il fronte. Era una ragazza di vent'anni originaria della Calabria ma residente a Firenze, che era riuscita a intrufolarsi tra le truppe in viaggio su una delle tante tradotte adibite al trasporto dei militari diretti al nord: in apparenza un fante come tutti gli altri del 127° Reggimento, in tenuta da guerra completa: zaino, cappotto, fucile e cartucciera.

Aveva la statura e i lineamenti che potevano trarre in inganno, ma gli occhi troppo dolci, le labbra troppo accese, le mani delicate. Troppo bella per essere un uomo.

Fu riconosciuta e a Bologna fu fatta scendere dal treno. Aveva i capelli biondi tagliati quasi a zero.

Portata in questura, confessò la propria identità e dichiarò che avrebbe tanto desiderato di prendere a fucilate i tedeschi. Naturalmente non le fu concesso di proseguire il viaggio. Al Comando della divisione dovette restituire l’uniforme, poi fu condotta a Firenze e riconsegnata alla famiglia. Così raccontano le cronache.

Lo stesso tentativo fu fatto a Milano da Gioconda Sirelli, venditrice di polli, anche lei scoperta e rimandata alla famiglia.

Ma in altri eserciti giovani donne desiderose di partecipare alla guerra ebbero miglior fortuna, se così si può dire.

Naturalmente per poter entrare nelle file dei combattenti le donne-soldato dovevano mentire sul proprio sesso, tuttavia già dal 1915 si verificarono diversi casi di soldati che, rimasti feriti e trasportati nelle ambulanze, una volta spogliati per essere curati si rivelarono… signorine.

Accadde in Francia, in Serbia, in Austria, ma soprattutto in Russia.

Ne La Domenica del Corriere dell’ultima settimana di febbraio del 1915 era riportata la notizia che pochi giorni prima lo Zar Nicola II in persona aveva decorato con la Croce di San Giorgio la signorina Tylscinin che, scappata dal Ginnasio della sua città e travestita da uomo era riuscita ad arruolarsi.

Aveva preso parte a vari combattimenti, distinguendosi per coraggio, ed era rimasta ferita tre volte. Qualche mese più tardi la giovane Rimma Michailovna Ivanova, anche lei maestra elementare, fu uccisa in combattimento.

La sua storia fu assai singolare. Dopo l’inizio della guerra si era diplomata infermiera ed era andata al fronte, al seguito di un reggimento nel quale suo fratello era ufficiale medico.

Durante una battaglia, mentre era intenta a curare i feriti, Rimma vide cadere tutti gli ufficiali della 10a compagnia del suo reggimento. Senza pensarci troppo si era tolta i distintivi della Croce Rossa, aveva riunito i soldati che già cominciavano a sbandarsi e li aveva guidati all’assalto della trincea nemica. Una pallottola stroncò la sua giovane vita.

Nel 1916 Slawka Tornitch, una ragazza di 18 anni che da due faceva parte dell’esercito serbo, raggiunse il grado di sergente. L’anno precedente era stata ferita gravemente in uno scontro con gli austriaci e aveva dovuto passare quattro mesi in un ospedale per le indispensabili cure.

Poi era tornata in salute ed era di nuovo uno dei sottufficiali serbi più attivi a Salonicco.

Altro caso celebre di una donna che si distinse per valore in combattimento fu quello dell’austriaca Victoria Savs, che si era arruolata insieme al padre nel 1915 con il nome di Viktor.

Negli anni 1916 e 1917 fece la staffetta portaordini e poi combatté in prima linea nella zona delle Tre Cime di Lavaredo. Ricoverata per una grave ferita, che le causò poi l’amputazione della gamba destra, fu scoperta e dovette lasciare il fronte.

Fu insignita della medaglia d'argento al valor militare di prima classe.

Fino al 1917 però le donne combattenti rimasero casi isolati. Tutti erano convinti che la formazione di truppe femminili in grandi unità stabilmente costituite dovesse restare nel regno della fantasia e delle speranze delle fanciulle un po’ troppo animose. Invece quell’anno in Russia si costituì un reparto di donne combattenti che prese il nome di Battaglione della morte.

Fu fondato da Madame Marija Botchkareva, siberiana, vedova di un colonnello.

Fin dall’inizio della guerra, quando aveva 25 anni, si era arruolata come soldato semplice ed era andata al fronte. Dotata di straordinaria resistenza fisica, aveva preso parte a numerosi combattimenti, era stata ferita sei volte, aveva ricevuto diverse decorazioni al valore, tra cui due Croci di S. Giorgio, ed era arrivata al grado di Sottotenente.

Dopo la rivoluzione di febbraio e l’abdicazione dello zar Nicola II, quando l’esercito cominciò a sfaldarsi con decine di migliaia di diserzioni, la Botchkareva chiese a Aleksandr Kerensky, Ministro della guerra nel Governo provvisorio, l’autorizzazione a formare un primo battaglione femminile combattente: “Poiché i nostri uomini esitano a battersi, le donne mostreranno loro come bisogna morire per la patria e la libertà”.

Quelle furono le sue parole.

Kerensky acconsentì e ben presto circa duemila tra donne mature e ragazze più giovani, anche appartenenti alla nobiltà russa, chiesero di arruolarsi.

Ne furono scelte poco più di duecento e riunite sotto il nome di Unione delle donne per la difesa nazionale sul fronte. Alle volontarie veniva richiesto di giurare di “vincere o di morire”.

Tutte sapevano che dopo tre settimane di istruzione militare intensiva, sotto la vigilanza di supervisori nominati direttamente dal Ministro della guerra, sarebbero state impiegate in prima linea.

Fu imposta loro una disciplina durissima: la minima insubordinazione era punita con la prigione.

Anche il reparto di sanità che doveva seguirle al fronte era composto esclusivamente da personale femminile, medici donne e infermiere.

Tra di esse si arruolò anche la moglie di Kerensky. Durante l’addestramento ricevettero anche la visita di Emmeline Pankhurst, già nota attivista britannica leader del movimento delle suffragette, fautrice della parità tra i sessi e simbolo del diritto di voto che fu concesso alle donne inglesi nel 1918.

Al principio di giugno le guerriere del Battaglione della morte sfilarono fiere per le vie di Pietrogrado, con tanto di musica reggimentale in testa.

Erano destinate a giocare un ruolo importante, anche se più come esempio e incitamento per gli uomini che come massa combattente.

Poi parteciparono all’offensiva estiva in Galizia, l’ultima prima della definitiva disgregazione dell’esercito russo e della rivoluzione di ottobre che portò i bolscevichi di Lenin al potere. Si batterono contro i tedeschi a Smorgon (Smarhon’) e a Kreva, nord-ovest di Minsk, in Bielorussia.

Soltanto 50 su 200 rimasero illese: 20 furono uccise e 8 prese prigioniere.

Catturarono circa 100 prigionieri, tra cui 2 ufficiali che “si mostrarono non poco umiliati, quando seppero il sesso dei soldati ai quali si erano arresi”.

Si diceva che ognuna di quelle amazzoni portasse con sé una dose di cianuro per togliersi la vita nel caso fossero cadute vive nelle mani del nemico.

Forse questa era una leggenda, ma è un fatto, dimostrato da un paio di fotografie dell’epoca, che uno dei motti ricamati sulla bandiera del loro battaglione era: “La morte è preferibile alla vergogna”.

Fabio Cecchi

 

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Articolo pubblicato il 04/04/2020