La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Tradito dalla moglie la uccide a colpi di coltello

Nella sera di domenica 27 aprile 1913, alla Barriera di Milano, in via Monterosa n. 42, nell’isolato adiacente alla Chiesa Parrocchiale di Maria Regina della Pace, si svolge una scena classica delle barzellette, commedie e film scollacciati: un marito ritorna a casa inaspettato e scopre l’amante della moglie acquattato sotto il letto.

I protagonisti di questa storia sono i coniugi Paolo Pigella, di 23 anni, fonditore nello stabilimento Brevetti-Fiat, e Maria Pennanzio, di 20 anni, casalinga. Sono sposati da tre anni e abitano in via Monterosa n. 43, in una modestissima casetta di proprietà della famiglia Pigella. Hanno una bambina di due anni, Rosa.

I due sposi abitano con i genitori di Paolo. Il padre, Giovanni, è spazzino municipale e guardiano notturno nel Dormitorio municipale a Porta Palazzo; la madre, Rosa Navone, ha un negozio di commestibili e combustibili nella stessa casetta.

La famiglia tira avanti discretamente. In casa Pigella dovrebbe regnare la serenità ma, dopo qualche tempo, il giovane marito inizia a sospettare che la moglie lo tradisca. Ha trovato alcune lettere firmate Maria ma evidentemente scritte da mano maschile. Il contenuto è poi inequivocabile: frasi traboccanti di desiderio e di passione con inviti a colloqui segreti e ad appuntamenti.

Tra i coniugi iniziano violenti litigi. La donna nega, afferma con ostinazione che le scrive un’amica. Ma il sospetto si aggrava quando Maria viene vista a colloquio, in un luogo appartato, con un giovane portalettere.

Paolo Pigella si rode e vuole scoprire le prove del tradimento.

Quella domenica 27 aprile, ha detto alla moglie che sarebbe rimasto fuori di casa con gli amici e che sarebbe rincasato molto tardi. Ha lasciato capire che probabilmente sarebbe rimasto fuori tutta la notte.

È il vecchio trucco delle commedie, ma anche questa volta dà buoni risultati.

I giovani coniugi non dormivano al n. 43 di via Monterosa, ma hanno affittato nella casa di fronte una stanza al piano terreno, al n. 42, e, con pochi e modesti mobili, l’hanno trasformata in camera da letto.

La sera di quella famosa domenica Paolo Pigella è tornato a casa poco prima delle ore 22 ed è rimasto silenzioso a spiare. Ha così avuto la brutta sorpresa di constatare che la moglie non era sola!

Allora va ad avvertire i suoi genitori ed un cugino, e li conduce a constatare il tradimento. Bussano e Maria, dopo averli fatti attendere a lungo, si decide ad aprire solo quando sente le voci concitate dei suoceri e del marito.

Paolo Pigella trova la moglie in apparenza tranquilla ma non si lascia ingannare e si mette alla ricerca dell’intruso. Nascosto sotto il letto trova un giovanotto, vestito in modo molto sommario. La giovane moglie, spaventata e tremante, si nasconde sotto le coperte, credendo che accada il finimondo.

Il marito si limita a rivolgersi al giovanotto, nel quale ha riconosciuto un amico, e gli dice tristemente: «Va via, Menico! Non mi attendevo da te una simile infamia». L’amante se ne va, lieto di essersela cavata a buon mercato. Il marito, dopo una sfuriata contro la moglie piangente, viene trascinato via dai genitori che vogliono evitare più gravi e dolorose conseguenze.

A questo punto è facile comprendere che la nostra storia non ricorda tanto le barzellette e le commedie scollacciate ma piuttosto il drammatico monologo in romanesco “’Er fattaccio der Vicolo der Moro” scritto da Americo Giuliani che proprio due anni prima ne ha ceduto l’esclusiva all’attore Alfredo Bambi che ha fatto il suo cavallo di battaglia.

La nostra ricostruzione è basata su una successiva cronaca de La Stampa e l’anonimo cronista non fa mistero del giudizio negativo per il comportamento della giovane donna, definita «una simpatica bruna, la quale era stata operaia un tempo ed ora doveva soltanto più accudire alla propria dimora» e che si è trasformata in una casalinga inquieta e insoddisfatta. Successiva perché la ricognizione della notte di domenica 27 aprile non giunge ai giornali che dovranno occuparsi dei coniugi Pigella a metà del mese successivo.

Paolo Pigella crede che la moglie possa ravvedersi, la perdona e decide di recarsi con lei a Milano, in cerca di un nuovo lavoro. Non riesce nel suo intento e, nella prima metà di maggio, i due coniugi sconfortati tornano a Torino.

La moglie non osa tornare a vivere con i suoceri e si reca presso la sua famiglia, in via Pistoia, zona allora piuttosto periferica nei pressi della Dora (oggi denominata Basso San Donato).

Paolo Pigella, sempre innamorato della moglie, non vuole lasciarla. Soltanto due o tre volte va a casa dei suoi genitori perché - dice - deve raccogliere le sue carte. In queste occasioni raccomanda alla madre di non distruggere il pacco di lettere che ha messo nel comò.

Paolo, triste e taciturno, nel pomeriggio di mercoledì 14 maggio, verso le 14,30, si ritrova con la moglie e insieme si recano all’Osteria degli stabilimenti, in via Intra n. 9.

Oggi scomparsa, questa breve perpendicolare del corso Mortara era una sorta di vicolo che si apriva nel grande isolato che ospitava lo stabilimento Vitali della FIAT Ferriere del quale rimangono gli alti pilastri in acciaio dipinti di rosso nell’attuale Parco Dora.

I due si trattengono nell’osteria a discorrere sottovoce fin quasi alle ore 17. Paolo ordina una bottiglia di vino e una mezza bottiglia di gazzosa; poi esce con la moglie e ritorna poco dopo, ordinando una modesta cena.

Alle 19,45 escono di nuovo insieme e si dirigono verso i prati, svoltando per la via Tesso, allora una strada di campagna intitolata al torrente affluente della Stura di Lanzo. I due sostano dietro lo stabilimento Bedarida (nell’isolato dove oggi si trovano le torri e i fabbricati del Villaggio Olimpico Media Mortara).

Qui, dopo un breve dialogo concitato, avviene il dramma.

Paolo estrae di tasca un affilatissimo coltello a serramanico, si scaglia contro la moglie e la colpisce con incredibile violenza, dapprima al dorso, mente tenta di fuggire, poi al fianco, all’addome e infine al petto, con tanta violenza che la lama rimane infissa nel cuore.

Un passante ha intravisto la tragica scena, corre a dare l’allarme all’osteria e poi alla caserma delle guardie di Pubblica Sicurezza di via Lanzo (oggi via Errico Giachino).

Paolo è fuggito per i prati come un forsennato. Inseguito da numerosi agenti, è arrestato nei pressi della «Casa del Popolo» nell’attuale largo Giachino. Non oppone resistenza e dice soltanto: «Prendetemi! Ora sono contento!».

Più problematico è il trasporto della donna, che non dà più segni di vita all’Ospedale San Giovanni, dove giunge già morta poco dopo le ore 21.

I militi della Croce Verde, infatti, percorrono con molto disagio il lungo tratto fino alla Barriera di Lanzo (attuale piazza Generale Baldissera) e soltanto da qui possono proseguire con maggiore comodità.

Iniziano le indagini. Paolo, molto prostrato e angosciato, quando è interrogato, chiede da bere. Poi narra la sua infelice vita di marito, i sospetti, l’amarezza alla constatazione del tradimento. Dalla moglie voleva una confessione completa, ma invano aveva parlato con lei per tutto il pomeriggio. «Se avessi visto - esclama – che quella donna era veramente pentita di tutte le torture che mi aveva procurato, l’avrei certo perdonata una volta per sempre. Ma compresi invece che era troppo cinica e che mentiva sempre!».

Paolo aggiunge che nei giorni precedenti aveva deciso di uccidere la moglie con una rivoltella ma la donna era riuscita a togliergli l’arma che aveva poi affidato ai suoi familiari. In effetti, in tasca aveva dieci cartucce di grosso calibro. Dice anche che nella stanza di via Monterosa n. 42 si trovano le prove della colpa della moglie. Viene così sequestrato un pacco di lettere, legato da un nastrino e nascosto in un cassetto del comò, con un biglietto dove si legge: «Sono lettere amorose di “scoscienzati”: non perdetele perché verranno cercate».

La madre di Paolo conferma agli inquirenti la scoperta dell’amante della moglie, avvenuta in quella triste domenica di fine aprile.

Questa la sintesi della cronaca de La Stampa del 15 maggio 1913, apparsa sotto il titolo che abbiamo ripreso per la nostra ricostruzione.

Dallo stesso giornale apprendiamo la conclusione della triste vicenda: «Alla Corte d’Assise è terminato ieri sera alle 21, il processo contro quel certo Paolo Pigella uccisore della moglie. In base al verdetto dei giurati, che lo ritennero colpevole di uxoricidio senza premeditazione, ma con provocazione grave, il presidente condannò l’imputato ad anni 4, mesi 9 e giorni 13 di detenzione, 1.000 lire di multa oltre alla pena pecuniaria di L. 87,44» (La Stampa, domenica 1° marzo 1914).

 

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Articolo pubblicato il 05/04/2020