Le Casermette di Via Veglia, a Torino
Casermette di via Veglia (1955)

Il "Centro di Raccolta Profughi" nei ricordi di Vieri (Seconda parte)

Leggi qui la prima parte.

 

Le poche masserizie, essenziali, si perdevano nel camerone (che come grandezza era una camerata militare): UN armadio, UN letto matrimoniale, UN tavolo con sedie, una specie di mobiletto che fungeva, oltre che da contenitore di “di tutto, di più”, anche da piano d'appoggio per la Primus. Ah, cos'è la Primus? ...o cos'era: era il fornelletto per cucinare e funzionava a petrolio, che allora si acquistava sciolto, allo spaccio (che era il negozio/emporio interno ad uno dei due campi) dove comperavi il pane, la verdura, mentre il Latte della Centrale doveva ancora essere inventato, come la Centrale del Latte del resto.

Nel camerone ci stavano, di norma, due famiglie e di conseguenza l’arredamento era doppio, quindi “due di tutto”; la famiglia con la quale condividevamo lo spazio era di Dignano d'Istria, lo stesso paese di provenienza di Toni (della fisarmonica, ricordate?), ed erano Tonin, Catina e Lidia: indimenticabili, come del resto tutti gli altri.

La suddivisione a metà del camerone si otteneva piazzando gli armadi affiancati, verso il finestrone, e veniva così delimitata la zona delle camere “da letto”; dall'ultimo armadio alla porta d'ingresso al camerone, unica, dal corridoio centrale, erano stati posti due fili di ferro in modo da formare una “V” a mo' di disimpegno, quindi mediante due coperte si ricavava un minimo di riservatezza, almeno visiva, tra i due “appartamenti”. Termine pomposo quest'ultimo, in quanto sopra gli armadi per almeno un metro e mezzo non c'era niente. Erano molte le famiglie “giovani” e, ad esempio, i miei genitori avevano trentadue anni il mio papà e venticinque la mia mamma, ed è per alcuni aspetti strettamente legati alla vita “vita” che ho usato l'aggettivo “pomposo”: da sopra quegli armadi passavano tutti i rumori, e potevi riconoscere chi sternutiva, o chi stesse parlando, o un mal di pancia, un bacio, o... Sicuramente non è bastato un lungo momento di difficoltà per far perdere i valori di tutta questa gente: civiltà, discrezione, educazione, riservatezza. C'è tutta una generazione nata in quegli anni, e tutto questo qualcosa vuol dire.

A proposito, avevo sentito allora nuovi modi di dire o, meglio, di parlare che per me erano quasi incomprensibili perché, anche se mi suonavano bene i diversi dialetti locali di noi profughi giuliano-dalmati, c'era la cadenza particolare di chi arrivava dalla Grecia o dalle colonie del periodo precedente la guerra, alcuni italiani dalla Romania; immediata l'intesa tra ragazzini, credo che lo sia stata anche per i grandi, perché la necessità di sopravvivenza è un catalizzatore unico. La popolazione era numerosa, tanto da occupare i fabbricati, chiamati “padiglioni”: erano dieci, a forma di “U”, distinti in “Primo braccio” e “Secondo braccio”; a distanza di settant'anni è difficile ricordare quanti cameroni ci fossero in ogni braccio, ma mi sembra che fossero dodici; a due famiglie per camerone diventano ventiquattro; nella parte frontale, verso la strada, ce ne stavano altre sei, quindi il totale per ogni padiglione era di (24+24+6=54) cinquantaquattro famiglie, almeno.

Dieci i padiglioni, ma nove e mezzo utilizzati per l'accoglienza e mezzo per altri “servizi per la comunità”; tutto questo ha richiesto un'organizzazione per vari aspetti. Quello principale è che Torino è stata la città con la più numerosa affluenza di profughi giuliano-dalmati di tutta l'Italia, e potrebbero essere ragionevolmente più di cinquemila, e con dati comunque reperibili (ANVGD Torino, prof, Gianni Oliva, F. Cavallero, E. Miletto); la ricerca di un lavoro era il presupposto fondamentale per poter ricominciare una vita.     Adesso mi riferisco al “secondo campo”, cioè quello che interessa anche via Guido Reni: per “altri servizi” intendo principalmente la parte con le aule scolastiche, elementari a classi miste, che erano una succursale della scuola “Pietro Baricco”; dietro, classicamente al fondo e verso il muro perimetrale, una camera mortuaria; delle due palazzine che ancora oggi danno su via Guido Reni, una era abitata, l'altra ospitava gli uffici e l'infermeria dove venivano effettuate anche le vaccinazioni, oppure altre medicazioni (ricordi diretti...).

La distinzione tra “primo e secondo campo” era una definizione pratica, in effetti si trattava delle ex caserme site in via Veglia ai numeri 33 e 44, ed i servizi per la comunità stavano da una o dall'altra parte; oltre a scuole ed infermeria, come già detto, dalla stessa parte si trovavano la chiesa con l'oratorio, la baracca della posta molto attiva, vicino al cancello principale, quindi comoda da raggiungere anche per chi veniva “dall'altro campo”, e forse un banco di pescivendolo; appena fuori, dietro l'angolo, una bancarella di frutta e verdura: mio nonno aveva avuto dal Comune una licenza commerciale per via dell'attività abbandonata in fretta e furia a Fiume; tornando all'interno del campo c'era un negozio “multifunzionale” e strutturato, con tanto di tabelle comunali esposte sulla facciata, quelle in alluminio, dove si poteva comperare indifferentemente il pane, il latte, la conegrina, il petrolio.

Petrolio? Si, quello serviva per le “Primus” perché fortunatamente era già disponibile l'illuminazione elettrica; “Primus” era la marca di un fornelletto a fiamma viva che funzionava a petrolio, ed era la cucina economica di allora, praticamente per tutti. Dall'altra parte mi sembra di ricordare un campo da calcio, cioè uno spiazzo con due porte, ecco... ma che ogni tanto ritorna nei miei sogni, poi un altro locale tipo spaccio militare, funzionante da bar, da ritrovo per una partita a carte, un momento di riposo mentale. E poi il cinema che credo gestito dalla parrocchia, perché funzionava per noi ragazzini in questo modo: la domenica pomeriggio entravi gratis presentando tre contromarche; che ricevevi se partecipavi alle funzioni, cioè la benedizione del sabato pomeriggio, la S. Messa della domenica mattina, l'altra benedizione la domenica pomeriggio; si, potevano essere questi tre gli appuntamenti. Per ogni bigliettino eventualmente mancante dovevi pagare 10 £. In tutti i casi eravamo davvero tanti a frequentare la chiesa e l'oratorio.

All'interno dei due campi non vi era traffico salvo le varie biciclette; risultavano così godibili degli spiazzi enormi, erbosi, anche per la semplice permanenza all'aria aperta, ma la facevano “da padrone” giochi come “el pindolo” (la cirimela), o qualche fionda, un arco fatto con i ferri degli ombrelli rotti, il cerchio (normalmente un cerchione di ruota di bicicletta, senza i raggi, da spingere e manovrare con un ferro sagomato ad hoc, o con un bastone). Chi riusciva a procurarsi tre cuscinetti a sfera, poi, era fortunatissimo perché poteva costruirsi l'ambito carretto a tre ruote, con quella anteriore sterzante.

Non era certo per meriti particolari che si stesse lì o all'oratorio: fuori non c'era niente, solo qualche casetta su via Veglia; un po' più di movimento dall'altra parte, dove stava nascendo Città Giardino, non c'era ancora quella strada che sarebbe diventata corso Allamano. Ma davanti ai due campi ad un certo punto è comparso il pullman, uno di numero, piccolo, che faceva la spola tra via Veglia e piazza Sabotino, arrivando da via Pollenzo (che tutti subito avevano preso in simpatia, grazie all'assonanza con la cittadina di Parenzo), faceva capolinea dietro il negozio di Viecca.

(Fine della seconda parte – Continua)

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Articolo pubblicato il 10/05/2020