Le Casermette di Via Veglia, a Torino

Il "Centro di Raccolta Profughi" nei ricordi di Vieri (Terza e ultima parte)

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Era quella la città, in un’espressione di ripresa di vita alla quale molti volevano ritornare, proprio per riprendersi la normalità strappata loro anni prima.

Ma le mamme avevano anche scoperto il “Piccolo Valentino”, la collinetta di parco Ruffini; era già un posto avventuroso per giocare, che negli inverni nevosi si “popolava” le slitte fatte in casa, di legno ovviamente recuperato: la prima che mi ricordi d’aver visto, l’ho vista lì, realizzata col legno di una cassetta ed una striscia di reggetta metallica perché scivolasse meglio.

Comunque non è stata l’unica “macchina” che mi ha incantato: sono rimasto a bocca aperta anche quando ne ho vista una vera, di macchina, un’automobile, coperta quasi sempre da un telo di protezione, come fosse una cosa rara; poteva essere una Lancia, forse un’Ardea, di un signore Istriano che aveva fatto il taxista, al suo paese, e che poteva aver accompagnato un cliente a Trieste, per esempio, ma senza rientrare. Tipo vivo; aveva, se ricordo bene un soprannome particolare: “El Garbin”, ma non saprei per quale motivo.

Avevo compiuto sei anni ma non andavo a scuola. Tutto regolare perché avevo compiuto gli anni a gennaio e non potevo essere iscritto nell’anno scolastico precedente, ma ho provato comunque la scuola indirettamente, nel senso che non ero uno scolaro ufficiale ma andavo come nipote del maestro Guido, anche lui profugo, zaratino mi pare, che insegnava in una classe collettiva (dalla prima alla quinta) mista a Rivarossa; per me, abituato alla pianura, era strano vedere il lato scosceso del paese ed altre novità, ma a mia volta ero io la novità per gli altri occasionali compagni di classe, che mi hanno fatto sentire uno di loro, dal primo momento. Con l’anno successivo, regolare quindi, mi sono ritrovato in prima, ma avendo già imparato a scrivere e a leggere, spedito a fare pratica in seconda e rimandato in prima in caso di ispezione. Alla fine dell’anno scolastico un esame superato, da privatista, mi ha permesso di continuare regolarmente dalla terza elementare.

Una “prima” particolare, un’altra questa della scuola. Altra prima è stata sicuramente una bicicletta, una “Carlo Carrà” nuova, un motivo d’orgoglio soprattutto per papà, che aveva trovato (come tanti altri) lavoro; ovviamente è arrivato anche il primo volo, con la bici, e con atterraggio sul mento che ricorda ancora quell’impatto. Primo serio incidente casalingo e non è stato uno scherzo: nei padiglioni i servizi lavabi da una parte, e i gabinetti alla turca dall’altra, “invitavano” a tenere dell’acqua nel mobiletto contenitore; mi è capitato che un pomeriggio, svegliatomi assetato dal riposo pomeridiano, ho preso una bottiglia dal mobiletto e, sentito il movimento del liquido, ne ho bevuto un bel sorso mettendomi ad urlare immediatamente: non era l’acqua che mi aspettavo, era conegrina, quella che si usava molto volentieri per mantenere in ordine i gabinetti (di solito uno per le due famiglie coabitanti): i grandi mi hanno fatto bere una dose folle di latte e la cosa è terminata lì.

Ah, sì, anche la conegrina veniva venduta sfusa, lo avete letto poco prima.

Siccome non è bello parlare di bere senza parlare di roba da mangiare, ecco una “prima” gastronomica: la mamma di Paolo Bre. mi chiede se resto a mangiare con lui, avvisa mia mamma e ci mettiamo a tavola; quando torno a casa mamma mi chiede cos’ho mangiato e le rispondo che avevo mangiato “la carne, fatta di tanti fili”, e così avevo conosciuto il primo bollito. Casa viva anche quella, mamma allegra, del papà oggi ricordo poco o nulla tranne l’impressione di papà attento e pacato, Paolo con una mano invidiabile per disegnare. Ne mancavano di cose: da quelle abbandonate per salvare la pelle, alla tranquillità economica, alle comodità cui si era abituati; c’erano pochi soldi, ma non mancava la voglia di vivere, non mancava il senso di comunità pur se ci si era appena conosciuti.

A sorpresa mi sovviene una voce: “Stache’ i fornei” (staccate i fornelli) cosa che oggi, leggendo questi lontani ricordi da vecchio elettricista, ed antinfortunisticamente parlando, risultano sorprendenti; significa che alcuni preferivano non avere fiamme libere, per loro sicurezza, in questi “locali-casa” e quindi optavano per un altro sistema di cottura. Non solo: qualcuno capace, attraverso un piccolo foro nello sportello metallico chiuso, con un ferro da calza riusciva a ripristinare l’interruttore generale, limitatore; ma ciò vuol dire che l’impianto era munito di una protezione automatica, tipo magnetotermico, estremamente attuale negli anni ‘50: letto oggi, il fatto è notevole.

Comunque la “casa” veniva vissuta poco dai ragazzini in quanto fuori non c’erano pericoli di traffico; si andava all’oratorio dove si faceva a turno per un giro sull’altalena o sul “passo volante”, si inventavano le più strane competizioni, ma sul passovolante si rischiava di finire a sbattere contro il palo centrale per spostare (per il prossimo giocatore) o recuperare la pietra, spirito del gioco; sull’altalena, invece, la prima cosa da imparare era quella di “spingersi” autonomamente; la seconda era imparare ad andarci stando in piedi; la terza era decisamente da temerari ed era saltare dall’altalena, e la gara più str... (ehmm) “strana” era il saltare più distante degli altri, anche se non c’erano coppe in palio: al limite dei punti, ma quelli erano punti di cucitura perché a volte, almeno una, il campione e finito direttamente sul tronco di una delle piante davanti, non vicine... ahi che botta.

Dei due sacerdoti presenti, uno ha seguito una parte della comunità anche dopo la sistemazione più stabile in case (case Fiat in via Nizza/Millefonti, case popolari a Falchera o “Villaggio” S. Caterina da Siena a Lucento); don Pierino Chiavazza è stato il punto di riferimento non solo religioso, senza nulla togliere all’altro; poi ci sono stati i loro percorsi e ci sono stati altri avvicendamenti, ma oltre vent’anni fa qualcuno “dei nostri”, e giovane di allora, ha pensato di combinare un incontro del secondo campo, con ingresso ora da via Guido Reni, e con don Pierino a celebrare una S. Messa. Per me è stato tornarci dopo più di quarant’anni, con ricordi ed emozioni a go-go, in un clima gioioso “al quadrato” e con un maresciallo che non riusciva a capacitarsi di come quelle centocinquanta persone fossero lì senza un responsabile. Poi ha capito che non sarebbe servito, e perché.

Era una bella giornata, quella, eravamo in tanti; mancava solo l’uomo del triciclo dei gelati, al quale chiedere: “Dammi un gelato da dieci lire”; probabilmente allora sarebbe arrivato con un camioncino, bello, colorato e scritto, a distribuire i suoi gelati, ed esibito in mostra su un trasparente rimorchio “quel” triciclo, che mi pare sia esposto ancor oggi nel museo dello stabilimento della Sanson, vicino a Verona.

“Ma tu vai a Falchera o a Lucento”? Sto parlando della domanda più frequente tra noi; era il 1954 o 1955 e c’era questa aria di novità più che di smobilitazione; il grande e mai sopito desiderio di una casa, con una porta a segnare l’intimità e l’individualità della famiglia, di ogni famiglia, era l’argomento di attualità dei grandi che si rifletteva anche nei più piccoli. Nessun dramma, nessuno di noi “piccoli” ha pensato a cosa sarebbe successo in seguito perché era un naturale passo successivo della vita, nella vita.

Da qui inizia un nuovo racconto...

Fine

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Articolo pubblicato il 11/05/2020