L’insignificanza e la liturgia del nulla. Di Gregorio De Bonifaci

C’era, un tempo, la Chiesa del silenzio. Era la Chiesa che, sotto i regimi comunisti, doveva nascondersi, ordinare sacerdoti che si presentavano in pubblico come operai metalmeccanici, consacrare vescovi non nella luce di una cattedrale ma nel buio di qualche cantina. C’era la Chiesa, tanti secoli fa, dei “cacciatori di preti”, i “priests hunters”, ed era la Chiesa inglese del Cinquecento. Allora la Chiesa doveva parlare nel modo più prudente possibile, per poter continuare a portare la sua voce ed evitare che quella fiammella, sempre in pericolo di essere spenta, potesse estinguersi del tutto.

 

La Chiesa degli ultimi decenni ha scelto un altro tipo di silenzio: ha aderito, lentamente ma progressivamente, al “politically correct” che, fasciando tutto il mondo della cultura e comunicazione in una morsa senza scampo che si presenta come sorridente e untuosa carezza, blocca la coscienza umana e la condanna all’autocensura. La Chiesa di un tempo non ignorava il mondo: la Chiesa ascoltava il grido del mondo, e proponeva risposte diverse da quelle del mondo. Era antipatica, ruvida, minacciosa quando serviva; e lo faceva perché sapeva che l’unico modo per districare il groviglio delle coscienze, per far respirare l’umana civitas “sazia e disperata” di cui parlava il cardinal Biffi, è dire che le risposte ci sono, ma non sono solo umane.

 

Ci sono, le risposte: risposte che sanno che il male del mondo non si elimina spostando qua e là qualche pezzo di mondo, che l’angoscia dell’uomo non si solleva con un po’ di tecniche psicanalitiche o respiratorie. Sanno che il destino dell’uomo non è solo umano, che la vita ha un senso perché è il risultato di un’intelligenza buona e somma, che il mio essere-qui oggi non è solo un essere sbattuto da qualche parte, un casuale movimento di molecole che poi ad un certo punto si arrestano, e poi si ricompongono e un altro pezzo di materia riparte in un moto senza senso. Sanno che la società umana si gestisce bene se c’è una direzione verso il bene.

 

Sanno che riconoscere il male che si è fatto non è un confrontarsi con forze interiori che giustificano qualunque colpa come un momento di crescita che poi va superato e quindi mai vinto, secondo quell’ottica del togliere–conservare che, da Hegel in poi, ha distrutto la coscienza perché il male è diventato bene, in un processo di presunta autoconsapevolezza e autoriconoscimento. Sanno che l’etica ha diritto di esistere se è radicata nel senso della vita, cioè il senso dell’universo, e che fondare la norma sull’ultima moda culturale è un suicidio della civiltà e del singolo essere umano, perché da lì nascono tutti i moralismi precettistici e bacchettoni, e lì si spegne la vita morale robusta e coraggiosa.

 

Sanno che pregare non è una perdita di tempo, ma che orienta la nostra vita, le assicura il respiro necessario per alzarsi tutte le mattine e addormentarsi la sera con un po’ di serenità; sanno che la liturgia non è uno stare insieme per contemplare il nostro essere-qui-e-basta, ma è l’alzare la nostra vita verso la dimensione cosmica, nella quale tutta la Chiesa è presente, noi qui e ora, ma con noi quelli che sono stati, al tempo della loro vita, capaci di accogliere il senso pieno del loro esistere.

 

La Chiesa ha pensato che tutto questo fosse ferro vecchio, che un Nuovo Inizio dovesse avvenire: accogliere le domande, certo, come sempre si era fatto, ma accogliere ora anche le risposte (molte delle quali in realtà generano le stesse domande), in un generico rispetto per l’altro che vuol dire rinuncia al mandato della conversione.

 

Una Chiesa non più capace di condannare, una Chiesa “sim–patica”, che condivide il páthos del mondo; una Chiesa che nel riconoscere come salvifiche le visioni non solo del marxismo, ma in generale delle filosofie post-hegeliane, dice al mondo: eccoci, siamo come voi! Oggi, in questo momento di tragedia mondiale, possiamo con nettezza vedere, intorno a noi, l’edificio crollato, la Chiesa dal tetto distrutto che non riesce a ripararci dalla pioggia e dal gelo perché quel tetto è stato lasciato rovinare a terra.

 

Non è il dibattito sulle chiese chiuse o aperte, che ha la sua ragione d’essere, ma è altra cosa, che semmai fonda le questioni di cui oggi molto si parla. È il silenzio della Chiesa di fronte all’urlo del mondo, è il rifugiarsi nel panteismo del pianeta malato, è l’indicare generiche malattie, nel trionfo dell’insignificanza di parole che non indicano la realtà ma rimandano solo a se stesse in un mortale giuoco di specchi. È il silenzio del non sapere dire nulla, questo silenzio scelto dalla Chiesa: la Chiesa che in passato aveva conosciuto il silenzio imposto, accettato e vissuto come prova per rendere la propria voce più forte e credibile. «Non tutti hanno dato ascolto al Buon Annuncio: Isaia infatti dice: Signore, chi ha prestato fede alla nostra predicazione?» (Rm 10, 16-17).

 

E questo annuncio è segno di pazzia perché va contro il politicamente corretto, è bestemmia perché osa dire che tutto non finisce qui, che l’urlo dell’uomo che domanda il perché del male e del dolore non è il sottoprodotto di qualche spinta ormonale, ma è l’apertura, dentro di noi, al destino vero dell’universo. Ma se non c’è nessun annuncio, non c’è nulla né da ascoltare né da rifiutare.

 

Quando Benedetto Croce, nel periodo più buio della seconda guerra mondiale, quando sembrava davvero che la violenza neopagana e satanica del Nazismo potesse soffocare il mondo, scriveva il suo famoso saggio Perché non possiamo non dirci “cristiani”, metteva tra virgolette “cristiani”, perché lui cristiano non era; aveva di fronte una Chiesa comprensiva e amorevole nel privato, ma dura e ammonitrice nel suo confronto con il mondo; e questa Chiesa il filosofo rispettava, come forza incomparabile di civiltà.

 

Oggi, la Chiesa dice Perché non possiamo non dirci mondani, e senza le virgolette. Una Chiesa che ha scelto l’irrilevanza: ha scelto non di cantare cum Angelis et Archangelis, ma di accodarsi, ultima di una fila di servi incatenati che camminano tenendo gli occhi bassi, alla voce del coro che ripete il mantra gnostico mondialista dell’uomo che salvando il pianeta dove abita salva se stesso. Di questa Chiesa il mondo fa benissimo a meno; e non deve più preoccuparsi di tacitarla, perché si è zittita nel momento in cui ha scelto una predicazione non folle, non blasfema rispetto al mondo, ma balbettante eco del Coro del Nulla, ove il panteismo si fa nichilismo e il nichilismo affoga in un rozzo naturalismo biologicistico. 

 

Corrispondenzaromana.it

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Articolo pubblicato il 09/05/2020