L'atteggiamento missionario del pontificato di San Giovanni Paolo II - Parte 9

Rappresenta un patrimonio ricchissimo che non è ancora sufficientemente assimilato nella Chiesa

In una intervista del 2005 Papa Benedetto XVI, faceva notare che l’insegnamento di Giovanni Paolo II “rappresenta un patrimonio ricchissimo che non è ancora sufficientemente assimilato nella Chiesa”. E soprattutto i suoi documenti, rappresentano“un tesoro ricchissimo” per interpretare il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Nella sua prima enciclica, la “Redemptor hominis”, il Papa venuto dall’Est, fa memoria di come il Concilio abbia insegnato a rivolgersi agli uomini contemporanei attraverso il “dialogo”. Naturalmente, la Chiesa deve dialogare con gli uomini che vivono in questo mondo, con certe caratteristiche, che vanno conosciute perché il dialogo possa essere efficace.

 

In questa enciclica secondo Marco Invernizzi, autore dell’agile pamphlet, “San Giovanni Paolo II. Un’introduzione al suo Magistero” Sugarcoedizioni  (Milano 2014) si cominciano a definire le caratteristiche del pontificato di Giovanni Paolo II, che sono quelle dello spirito missionario. Il Papa aveva le idee chiare a questo riguardo, si richiamava all’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” di Paolo VI, che nel 1975 si sforzò di far penetrare nella Chiesa un profondo senso dell’apostolato missionario.

 

“L’atteggiamento missionario – scrive Giovanni paolo II – inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che ‘c’è in ogni uomo’ (Gv 2,2). Pertanto, “la missione non è mai una distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova costruzione  (…)”. Esiste per il Papa un rapporto tra la verità che il missionario deve trasmettere e la libertà che deve essere rispettata in colui al quale l’apostolo si rivolge, e qui che viene spiegato il senso della dichiarazione sulla libertà religiosa, “Dignitatis humanae”, del Vaticano II, “una dichiarazione – secondo Invernizzi – che vuole ricordare che la Chiesa, così come è custode della Verità che ha ricevuto, custodisce anche la verità sull’uomo, ossia il valore della sua libertà e dignità”. Pertanto alla Chiesa interessa solo:“che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione (…)”.

 

Il Papa comprende che la Chiesa incontra un uomo minacciato spesso dagli stessi progressi compiuti dallo sviluppo tecnologico. Giovanni Paolo II è molto duro nei confronti del XX secolo:“Il nostro secolo è stato finora un secolo di grandi calamità per l’uomo, di grandi devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali” (n.17)E’ sotto gli occhi di tutti che l’uomo moderno, che aveva teorizzato i diritti umani fondamentali, nella nostra epoca, si è allontanato dal rispetto del diritto naturale.

 

Nella Redemptor  Hominis, il Papa affronta alcuni argomenti che poi saranno ripresi nel corso del pontificato. Il ruolo dei teologi e la necessità che il loro insegnamento sia intriso di preghiera oltre che di scienza e di ricerca e che soprattutto, i loro studi, siano legati al Magistero. A questo devono vigilare i vescovi, come pastori, successori degli Apostoli che devono guidare il Popolo di Dio, in comunione con il Santo Padre. L’importanza della centralità del sacramento dell’Eucarestia, che si lega necessariamente a quello della riconciliazione, che deve prevedere la confessione sacramentale personale, come raccomanda l’insegnamento costante del Magistero. Qui il Papa fa riferimento al tema della libertà, un tema che sarà centrale nel suo pontificato. Numerosi sono i suoi interventi sulla libertà religiosa e sul disprezzo dei principi fondamentali del diritto naturale.

 

A questo proposito scrive Giovanni Paolo II:“Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c’insegna che il miglior uso della libertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio” (n.21)

 A questo punto Invernizzi commenta le pagine dell’enciclica di Giovanni Paolo II che fornisce una singolare lettura del Vaticano II, “entusiasmante ma pochissimo diffusa, anche fra i vescovi”. Indubbiamente “Il Concilio è stato l’avvenimento centrale della Chiesa del secolo XX e non poteva essere altrimenti, trattandosi della convocazione di tutti i vescovi del mondo per mettere la Chiesa cattolica nella condizione di affrontare le sfide dettate dalla nuova situazione mondiale”.

 

Un Concilio pastorale come spiegò Giovanni XXIII nel discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962, “che doveva indicare alla Chiesa con quale nuovo atteggiamento si sarebbe dovuta porre nei confronti di un mondo che si riteneva fosse profondamente cambiato in seguito alla realizzazione della cosiddetta modernità, dopo la Rivoluzione del 1789, ma anche di fronte alla stessa modernità, che si sarebbe poi manifestata in tanti aspetti con la rivoluzione culturale del 1968”.

L’indizione del Concilio colse tutti di sorpresa, provocando una certa agitazione nella Chiesa. Anche durante i lavori perdurò l’agitazione, talvolta si arrivò ad infiammare  e a dividere la stessa cristianità, almeno in Occidente, non soltanto durante la durata dell’assise, ma anche soprattutto negli anni successivi. Intanto il futuro pontefice Giovanni Paolo II, nella sua diocesi polacca, vivrà invece il Concilio“come un dono e un’occasione di arricchimento della fede, in una prospettiva missionaria e di rinascita spirituale”.

 

Due furono le interpretazioni dialettiche del Concilio in quell’epoca profondamente ideologica,“eravamo nel pieno del ‘secolo breve’”. Una dialettica ideologica che era penetrata anche dentro la Chiesa. Il clima era quello dove ci si contrapponeva tra Chiesa preconciliare e un’altra postconciliare, tra progressisti e tradizionalisti.

Il classico schema “progressista”, applicava alla Chiesa l’utopia di una società di liberi e uguali, pertanto, secondo Invernizzi, si confondeva,“l’incontro con Cristo al termine della storia, il giudizio universale, con il progresso indefinito dell’umanità raccontato dalle ideologie illuminista e marxista”.

Applicando questo schema alla storia della Chiesa,“il Concilio diveniva una sorta di svolta epocale fra il tempo ‘oscuro’ della Chiesa costantiniana e tridentina e finalmente quello della ‘luce’ portata dall’assise conciliare; che avrebbe cambiato tutto riconoscendo l’inferiorità e l’arretratezza della Chiesa nei confronti del mondo”.

 

Invece, leggendo attentamente i documenti conciliari, la realtà è tutta diversa: “la svolta conciliare consisteva nel cercare un modo adeguato alle caratteristiche dell’uomo moderno per trasmettere il Vangelo e la dottrina della Chiesa, che non possono mutare ma soltanto essere comprese meglio”. Era questo il significato che aveva dato il Santo Padre Giovanni XXIII.

 

 

 

                        

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Articolo pubblicato il 28/06/2020