L’Aula vuota

La scuola nell’età del distanziamento sociale

Permettetemi una piccola considerazione personale. Ho insegnato nelle scuole superiori per quasi quarant’anni. Una professione che è stata per me ragione di vita e di grandissima soddisfazione per molto tempo, e confesso di aver sofferto il pensionamento. Eppure quest’ultimo ha avuto un aspetto positivo: mi ha consentito di non vedere il disastro educativo di questi ultimi mesi, anche se ho assistito al progressivo declino della scuola negli ultimi anni.

Ai tanti acronimi di una dilagante afasia didattico-burocratica (BES, PEI, PAI, PIA, PDP, POF, PTOF e altro ancora) si è aggiunta la DAD (didattica a distanza), in pratica la lezione telematica, una cosa che -per chi l’ha sperimentata- è delirante. Un dialogo fra un insegnante seduto nel salotto di casa, in mutande e ciabatte, e ragazzi in pigiama a casa loro trasformati in figurine sullo schermo.

Forse, in questi tempi di follia collettiva, non si poteva inventare qualcosa di meglio. E forse la DAD, pur essendo un povero surrogato di scuola, era meglio che chiudere ogni attività didattica lasciando gli studenti a sé stessi. Il pericolo è che -come per lo smart working- ci si prenda gusto. Molti,nella scuola, già pregustano una didattica senza aule, senza libri, senza studenti in carne e ossa, una didattica tutta giocata sul filo delle connessioni internet. Un insegnamento lontano e asettico, senza imbarazzanti contatti umani.

Il cosiddetto e-learning può avere un significato e una utilità in certi tipi di didattica: quella universitaria, quella professionalizzante, quella specialistica. Il fatto è che questo strumento lo si vuole esportare anche nella scuola primaria e secondaria, dove semplicemente non può funzionare, a meno che non si trasformino quelle scuole in semplici luoghi virtuali dove attuare una meccanica distribuzione di conoscenza.

Tutti noi abbiamo sperimentato quell’età della vita in cui abbiamo popolato le nostre scuole -volentieri, malvolentieri, con risultati brillanti, buoni, incerti o pessimi- scuole dove abbiamo imparato soprattutto a stare con gli altri, compagni o insegnanti che fossero. Lì abbiamo appreso nozioni, concetti, abilità, ma soprattutto abbiamo intessuto delle storie umane con altri esseri umani. Quella che oggi viene burocraticamente definita “comunità educativa”, allora era semplicemente uno spaccato vivente di società dove si trovava il bello e il brutto della società “vera”, quella “grande”, con gli amori e gli odi, le attrazioni e le repulsioni, le speranze e le delusioni. Il microcosmo scolastico rifletteva e riprendeva il macrocosmo sociale.

Senza riandare nostalgicamente al Cuore deamicisiano o ai Ricordi di scuola di Mosca, libri un po’ melensi ma tutto sommato ancora commoventi, quel tipo di scuola ci è rimasto dentro con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ma sopratutto per il suo collocarsi agli antipodi del cosiddetto “distanziamento sociale”, oggi imposto dalle norme sanitarie e domani, forse, accettato come necessaria componente di un nuovo incombente totalitarismo.

Perché questo è il grande sospetto. La scuola nuova come esperimento di una nuova forma di controllo sociale basato sul distanziamento e sulla soppressione di tutto ciò che nella scuola vecchia era spontaneità, differenza umana, pensiero autonomo, sentimento individuale e, infine, anche tentazione ribellistica. Non va dimenticato come le scuole, soprattutto le università ma anche le superiori, siano sempre stati focolai di contestazione e di opposizione ai vari regimi più o meno autoritari. Il ’68 e i seguenti anni 70 lo testimoniano, come molti di noi ancora ricordano. Anni in cui maturarono molti errori e molte distorsioni ma che comunque erano anni passionali, di forte confronto intellettuale e politico, e pieni di fuoco innovatore. Ve li immaginate quegli ardori e quelle passioni con la DAD?

Ripeto: la pianificazione e normalizzazione della scuola nell’ottica di un sempre maggior controllo sociale -ipotesi che già circolava negli anni ’70 sulla scorta delle analisi della Scuola di Francoforte e del Marcuse più  popolare- non può essere una certezza, ma solo un sospetto. Ben fondato, però, se si tiene conto anche della lenta ma continua burocratizzazione della didattica già avviata da tempo.

La “burodidattica”, fatta degli acronimi di cui si diceva all’inizio, di continui controlli valutativi dell’insegnante nei confronti degli studenti, delle dirigenze nei confronti degli insegnanti, delle amministrazioni superiori nei confronti dei dirigenti. Controlli che generano normativa e normativa che genera controlli, modulistica, tempistica, efficientistica, gruppi di lavoro, commissioni e comitati, rendicontazioni e analisi che richiedono ulteriori verifiche, dettagliamento operativo e -ultima ma non meno deprimente- la collettivizzazione della funzione docente. E l’accettazione di tutto ciò viene definita “professionalità dell’insegnante”.

Penso a una figura mitica di insegnante: quella di Augusto Monti, che la memoria torinese ha ancora ben presente pur dopo moltissimi anni. Avrebbe potuto sopravvivere in una scuola come quella attuale?

Non stupisce che questo lento ma inesorabile cammino verso l’anonimato costituisca il destino degli insegnanti attuali e futuri, un cammino verso quell’ Aula vuota profeticamente descritta da Ernesto Galli della Loggia nel suo bel libro del 2019.

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Articolo pubblicato il 01/07/2020